4.2 b . 2 i I nodi del primissimo dopoguerra in Italia. Subito dalle prime settimanefu evidente che la fine della guerra riguardava gli eserciti ma non la dinamica politica, dei rapporti internazionali e interna ai vari paesi. Il motivo era che assumeva sempre più rilievo il dissolversi il modo d’essere tradizionale degli stati di fatto nelle mani di gruppi dirigenti legittimati dai rispettivi titoli storici (seppure di varia natura, dinastica, militare, economica). Al suo posto andava assumendo maggior rilievo lo scontro tra le differenti idee sul come governare lo stato. In particolare quelle fautrici della rivoluzione marxista, molto rafforzate dall’essere arrivate al potere a Mosca, quelle nazionaliste fautrici dei processi identitari di ogni paese e infine quelle, che iniziavano a fare capolino, più inclini a coinvolgere i cittadini nella direzione della cosa pubblica (secondo le tesi dei pensatori liberali, peraltro ancora non abbastanza penetrate negli elettori in carne ed ossa).
Di conseguenza, terminata la guerra in armi, il clima politico restò molto agitato. In ogni modo le speranze rivoluzionarie dei marxisti ebbero vita brevissima in due paesi, la Germania e l’Ungheria, appena usciti dal far parte di quell’Impero dissoltosi d’un colpo a seguito della sconfitta militare. In Germania, i socialisti rivoluzionari spartakisti tentarono di scimmiottare i soviet russi ma furono in pochi giorni estromessi dall’alleanza di governo a prevalenza dei socialisti e del Comando Supremo. I tentativi dei marxisti russi non riuscirono neppure in Ungheria e in Baviera, dove erano sorte repubbliche filorusse che durarono qualche decina di giorni. Nel complesso, il ritorno alla pace fu caratterizzato da tensioni molto forti nei territori degli ex Imperi Centrali. Che peraltro al momento si impegnarono per trovare composizioni nell’ambito parlamentare. In particolare, attraverso riunioni a Weimar nella Turingia, venne elaborata anche la Costituzione della nascente Repubblica tedesca, che per un quindicennio regolerà la vita pubblica. Inoltre, più a sud, nei giorni della battaglia di Vittorio Veneto, a Zagabria era stato deciso da parte di Serbi, Croati e Sloveni la formazione dello Stato Jugoslavo, per separarsi dagli Asburgo in attuazione del disegno della Francia e dell’Inghilterra di avere un punto di riferimento alleato nei balcani, anche per riequilibrare le mire italiane.
In questo quadro generale, il modo di affrontare il dopo guerra in Italia fece immediatamente emergere una sostanziale divisione secondo indirizzi riallacciati alle posizioni della primavera 1915. Da una parte, i sostenitori della necessità, quasi un obbligo morale, di completare il Risorgimento, guidati dalla Corona, festeggiavano la vittoria con intensità (non per caso il Re percorse in lungo e in largo la parte orientale dell’Italia settentrionale, recandosi a Trieste insieme a Diaz; e del resto, dopo che il 30 ottobre Fiume aveva deciso di unirsi all’Italia, nei giorni della fine delle ostilità la Marina Italiana aveva occupato diverse città dell’Istria spingendosi fino a Zara e a Sebenico in Dalmazia). Dall’altra parte, l’area liberale – e in particolare quella vicino a Giolitti – spingeva a fare emergere presto la necessità di affrontare la non facile situazione del momento.
Così a metà novembre, parlando alla Camera, il Presidente del Consiglio Orlando, fece un punto realistico della difficile situazione. Sul piano internazionale le questioni insolute sul come realizzare la pace erano parecchie e oltretutto costellate di non pochi dissidi tra i vincitori (negli stessi giorni, truppe alleate francesi e inglesi apparvero a sostegno degli slavi, nelle zone costiere dalmate occupate dalla Marina italiana). E su quello interno occorreva pagare i debiti di guerra, risarcire i non pochi danni bellici, e risolvere la mole di questioni derivanti dalla smobilitazione dell’esercito e delle industrie legate alla guerra. Insomma ci si doveva preparare a nuovi sacrifici. Nelle immediate settimane successive, Orlando adempì alla promessa del dopo Caporetto e fece con un decreto legge una riforma elettorale che dava il voto politico a tutti gli ex combattenti anche minorenni.
In più, tenendo anche conto che i tre principali alleati (Francia, Inghilterra, Stati Uniti) per varie ragioni diffidavano della possibile influenza italiana nei Balcani e appoggiavano il formarsi di uno Stato jugoslavo indipendente ( cui lavorava da tempo il Comitato jugoslavo di Londra), all’Italia il Consiglio interalleato riconobbe il diritto di occupare i tenitori promessi dal Patto di Londra. Però nelle medesime settimane di novembre si svilupparono negoziati fra Zagabria, Belgrado e appunto Londra, che portarono a proclamare, il 1 dicembre, il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni.
In questo quadro, le tensioni tra le due strategie – esaltare il successo risorgimentale o prepararsi a nuovi sacrifici – covavano sotto la cenere. Così, a dicembre 1918, quando si trattò di decidere la linea da tenere alla Conferenza di Pace nel gennaio a Parigi, il Governo si divise tra la linea di Bissolati e Nitti (che sosteneva l’opportunità di qualche rinuncia sui territori da assegnare all’Italia secondo il Patto segreto di Londra del ’15, in cambio di ottenere il protettorato di Fiume e di Zara, trasformate in città libere) e la linea di Sonnino nettamente contraria. Il Presidente del Consiglio Orlando e il Generale Diaz tentarono una mediazione ma Sonnino fu irremovibile sul rispetto del Patto di Londra e alla fine la spuntò (convinto come al solito che le carte sottoscritte dovessero prevalere sullo stato delle cose, nonostante la posizione del Presidente degli Stati Uniti Wilson, ostile al Patto di Londra). Così, a fine dicembre, Bissolati si dimise, seguito poi da Nitti ed altri due Ministri, il che provocò un rapido riassetto del Ministero, ma restò irrisolta la questione diversa strategia (tanto che due settimane dopo ci fu un altro riassetto governativo alla vigilia della partenza per la Conferenza di pace).
Pochi giorni dopo, i primi gennaio del 1919, il Presidente americano Wilson venne in Italia per un breve periodo, fu ricevuto dal Re (con il quale andò in Parlamento) e ricevette un’accoglienza trionfale a Roma, a Genova, a Torino e a Milano. Nella sostanza fu un ospite funzionale ai fautori dell’epopea risorgimentale, i quali, presi dalle loro convinzioni passatiste improntate all’euforia, non volevano prendere atto della effettiva posizione di Wilson espressa in varie occasioni, a cominciare in un discorso ufficiale alla Camera degli Stati Uniti e ripetuta poi più volte. Tra l’altro, nei suoi numerosi discorsi in Italia, Wilson era esplicito nel sostenere la sua convinzione di presbiteriano praticante, per cui l’obiettivo era realizzare una sorta di internazionale borghese promotrice di un’utopica pace dei popoli (non scordiamo che a tal fine aveva rotto l’isolazionismo americano).
Due settimane dopo, venne costituito il Partito Popolare dei cattolici, il PPI, che si richiamava alla realtà del dopoguerra e propugnava un “programma sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai principi cristiani”. Segretario fu Luigi Sturzo, un sacerdote siciliano che operava nelle campagne da due decenni e che riteneva giusto dare ai cattolici un raggruppamento politico di privati cittadini, giuridicamente slegato dalla Chiesa e da ogni sua organizzazione quale l’Azione Cattolica.
4.2 b . 2 l – Durante la Conferenza di Pace. Nonostante le numerose avvisaglie, il governo Orlando fu molto sorpreso quando alla Conferenza di Pace a Parigi (inizio 18 gennaio 1919) dovette prendere atto che le richieste italiane sui territori costieri dall’Istria alla Dalmazia erano tenute in scarsissima considerazione. Innanzitutto nella Conferenza spiccava il trio del Presidente degli Stati Uniti ( Wilson) , del Premier inglese (Lloyd George) e del Primo Ministro francese (Clemenceau), al cui interno era di fatto dominante Wilson, per il suo tono predicatorio e messianico più che per l’esperienza politica. Peraltro Wilson già a gennaio del 1918 aveva formulato in 14 punti quale avrebbe dovuto essere l’ordine mondiale dopo la guerra. E questo ordine si configurava in contrasto con le richieste italiane.
Fin dal primo punto, in cui si affermava che “Pubblici trattati di pace, conclusi apertamente, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali privati di qualsivoglia natura, ma la diplomazia procederà sempre francamente e pubblicamente”. E Wilson attribuiva molta importanza al rimuovere la pratica del segreto. Invece, la linea scelta dal Ministro degli Esteri Sonnino e seguita dall’Italia fin dall’aprile del ’14, si fondava sul Patto di Londra, che era stato volutamente tenuto segreto al Parlamento di Roma. Per cui Wilson era fermamente deciso a non riconoscere i compensi che quel Patto aveva promesso all’Italia. E lo dichiarava sempre più apertamente.
A ciò si aggiunga che Wilson poneva anche un’altra questione di principio, anch’essa di rilievo. Mentre le pretese italiane sui territori irredenti (vale a dire quelli soggetti a sovranità terze pur avendo prevalente popolazione italiana) erano pienamente giuste e quindi andavano accolte, le pretese relative a larga parte delle coste dell’Adriatico orientale non riguardavano terre irredente (il punto 9 affermava che le linee di nazionalità dovevano essere chiaramente riconoscibili) ed anzi il pretenderle rientrava in una logica di natura imperiale, per cui non dovevano essere riconosciute. Che alla Conferenza di Pace la situazione fosse questa, divenne pubblico. E ciò ebbe forti conseguenze nei rapporti con gli slavi e nel dibattito politico in Italia.
Quanto agli slavi, essi avevano mutato atteggiamento alla svelta nei confronti degli italiani (dai quali erano stati aiutati non poco) dopo aver conosciuto il contenuto dei 14 punti di Wilson, il cui punto 11 – ma in generale anche il 12 – attribuivano agli slavi espliciti diritti di autonomia. E quando a metà febbraio del ’19 gli italiani rifiutarono a Parigi la proposta slava di fare Wilson arbitro della controversia territoriale sulla Dalmazia, l’Istria e Trieste, si verificarono gravi violenze contro gli italiani a Lubiana, Spalato e Ragusa. Gli slavi erano altresì incoraggiati dai Francesi, i quali miravano a fare di Trieste e di Fiume dei porti per lo smercio in Italia dei prodotti delle loro colonie africane. Non solo . Nei territori slavi, alti ufficiali francesi ed inglesi in divisa, presero parte a comizi antiitaliani e anche violenti contro le truppe italiane. Wilson temeva che le pretese italiane minassero la pace e in ogni caso sosteneva che Fiume non era italiana ma doveva restare un porto internazionale aperto ai traffici per arrivare nell’Europa centrale, evitando ogni tentazione monopolistica da parte dell’Italia.
Simili notizie, ovviamente, si diffondevano anche in Italia. E provocavano reazioni sempre più forti negli ambienti che da anni stavano cavalcando le tesi del completare il Risorgimento, tutti in modo acceso anche se facenti parte ciascuno di filoni differenti (il mancato riconoscimento dei territori sulle coste orientali dell’Adriatico suscitava in alcuni ambiti angosciosi interrogativi sul perché della guerra). Tali reazioni si mischiavano peraltro ad almeno due ulteriori questioni. Quella del propalarsi del sogno rivoluzionario del marxismo russo, che raggruppava non soltanto i marxisti (pure una parte dei reduci delusi e perfino gli imboscati di guerra preoccupati del crollo dei loro profitti con la pace) e che il 1° marzo 1919, tenne a Milano una grandissima adunata di popolo eccitato, contro il Re e contro la vittoria bellica, invocando un mondo migliore. E poi la seconda questione che i gravi problemi economico sociali evocati da Orlando a novembre erano incombenti davvero. Principalmente quelli del debito pubblico. Purtroppo, però, il Governo non riusciva a fornire risposte adeguate in termini economici e di aiuto civile e di conseguenza rafforzava la spinta al sovversivismo, che si manifestava sempre più in scioperi diffusi e partecipati.
Contestualmente, peraltro, tra i fautori del completare il Risorgimento iniziava a profilarsi un altro gruppo, proveniente dai socialisti che erano stati interventisti e che erano sempre meno marxisti per il motivo che “il capitalismo è ancora capace di ulteriori svolgimenti. Non è ancora esaurita la serie delle sue trasformazioni…..E sono un male i nuovi dittatori statali nelle fabbriche e nelle campagne“. Questo gruppo, intorno alle 150 persone, si riunì il 23 marzo ’19 in Piazza San Sepolcro a Milano, sotto l’egida del Direttore del Popolo d’Italia, Benito Mussolini, e costituì i Fasci di Combattimento, “un movimento sanamente italiano. rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico, che pone la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti”. Gli obiettivi erano distinti per il problema politico (tra cui voto a 18 anni e alle donne, nonché formazione di Consigli Nazionali tecnici di settore . eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro), per il problema sociale (tra cui giornata di otto ore di lavoro., minimi di paga, partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria, affidamento alle organizzazioni proletarie della gestione di industrie o servizi pubblici, modificazione delle assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età da 65 a 55 anni), per il problema militare (tra cui istituzione di una milizia nazionale con compito esclusivamente difensivo, la nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi), per il problema finanziario (tra cui una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, iI sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi, la revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell’85% dei profitti di guerra, di valorizzare la vittoria, di esaltare i combattenti e i mutilati, i decorati al valore, glorificare i caduti).
I sansepolcristi, fondando i Fasci di Combattimento, furono il primo nucleo del fascismo e trovarono l‘immediato sostegno degli Arditi, che rappresentavano con decisione il malcontento dei reduci. Fin da subito, la proposta dei sansepolcristi puntava a rassicurare i reduci e chi dubitava sugli esiti della Conferenza parigina, mostrando una faccia feroce verso gli ambienti sostenitori in superficie dei principi risorgimentali ma in pratica difensori dei propri privilegi elitari e delle tresche partitiche, nonché ostili al fare le riforme urgenti a favore della gente comune. Un atteggiamento del genere rendeva i Fasci di Combattimento i più adatti ad attirare le varie categorie della società borghese sempre più preoccupate per l’incombente prospettiva della dittatura del proletariato sul modello sovietico e quindi potenzialmente disponibili a sostenere chi fosse in grado di costituire un argine a tali minacce.
Intanto a Parigi, nella seconda metà di aprile, la questione di quali avrebbero dovuto essere i nuovi confini dell’Italia venne finalmente affrontata in modo aperto dai quattro personaggi di punta, Wilson, Clemenceau, Lloyd George e Orlando . Inizialmente si avanzò l’idea di fare di Fiume una città libera senza controllo italiano. Ma dopo qualche giorno, Wilson ruppe gli indugi , dichiarando pubblicamente (facendo pure uscire su un quotidiano la sua posizione) che insieme all’impero austro-ungarico era finito anche il Patto di Londra, che Fiume doveva essere il porto “per i commerci ed i traffici, non dell’Italia, ma delle terre a settentrione e a nord-est”, che le aspirazioni dell’Italia presenti nel Patto di Londra contrastavano con i principi dei 14 punti accettati dagli alleati e precisava che del resto quelle aspirazioni non avevano più ragion d’essere poiché non esisteva più l’antico nemico asburgico.
Sempre più stupito per la piega antiitaliana che aveva preso la conferenza, Orlando insieme a Diaz (Sonnino restò a Parigi altri due giorni) rientrò a Roma formulando una serie di critiche a Wilson, rivolgendosi agli Italiani e intervenendo sia alla Camera che al Senato. Le manifestazioni di solidarietà nel corso del viaggio furono assai consistenti, a Roma addirittura trionfali. Ma il quadro politico era del tutto mutato, dato che l’indirizzo voluto da Wilson aveva spazzato via la credibilità degli Alleati e degli interventisti democratici, mettendo in luce la sostanziale fragilità della politica governativa, non in grado di impedire che la vittoria venisse mutilata rispetto agli accordi del Patto di Londra. In ogni caso, le due Aule riconfermarono con oltre il 90% dei voti la fiducia al fine di “far valere i supremi diritti dell’Italia come condizione di una pace giusta e durevole”. Così il Governo, nonostante il dilagare degli scioperi a sfondo ideologico, decise di tornare alla Conferenza di Pace , cosa che fece la prima settimana di maggio (nel frattempo però la Conferenza aveva stabilito di sistemare il Mediterraneo orientale e le colonie tedesche in Africa, mediante mandati internazionali affidati a Francia e Inghilterra, escludendo l’Italia). Proprio al ritorno dei delegati italiani, per la prima volta venne consegnato il testo del Trattato di Pace che l’Intesa vincitrice intendeva imporre alla Germania con condizioni durissime (soprattutto sotto la spinta della Francia di Clemenceau, coerente nel suo radical socialismo).
Il problema reale di Orlando stava nel tipo degli argomenti critici verso Wilson e gli Alleati. Essi furono il negare che il dissolversi dell’impero austroungarico riducesse le aspirazioni italiane, l’affermare che l’Italia aspirava con forza all’Adriatico , dato che sarebbe stata “inutile la muraglia difensiva delle Alpi se si fosse lasciato aperto il fianco orientale e non si fosse portato il confine al monte Nevoso” (o Sneznik, al margine della Croazia) e il rilevare che “proprio in nome del principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli, doveva essere riconosciuto a Fiume il diritto di decidere delle sue sorti, ed essa aveva già proclamata la sua italianità prima che giungessero le navi italiane” .
Simili argomenti non erano tanto infondati, quanto non avevano spessore rispetto al tema centrale emergente dai 14 punti di Wilson. Mentre gli argomenti di Orlando esprimevano la tradizionale concezione di ordine internazionale modellato dalla lotta tra gli Stati di puro potere (impostazione tipica del Ministro degli Esteri Sonnino, fautore del primato del Governo sul Parlamento, e cara alla Corona), Wilson poneva un modo d’essere differente modellato sull’autodeterminazione dei diversi popoli. Perfino prefigurando, nel quattordicesimo punto finale (poi divenuto il rifermento della prima parte del Trattato di Pace), che “una Società generale delle Nazioni Unite dovrebbe essere formata in virtù di convenzioni formali aventi per oggetto di fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi Stati”.
Qui c’era un significativo scambio di ruoli. Orlando liberale, a capo di un Governo con molti Ministri liberali, nella politica estera seguiva un criterio ispirato alla tradizione degli Stati imperniati sul potere dei gestori e poco attento alle esigenze della libertà dei cittadini. Wilson, avvocato presbiteriano, democratico con inclinazioni socialiste e messianiche, voleva gli Stati Uniti portatori di un messaggio fondato sull’autodeterminazione di ogni Stato, introducendo così un criterio liberale. Ne deriva che un divario del genere nell’argomentare i contrapposti pareri sui confini nelle terre orientali in Adriatico, la dice molto lunga, da un lato sul processo di caduta della politica liberale italiana (ormai avviatosi e che nel giro di pochi anni avrà esiti drammatici) e dall’altro sull’incoerenza operativa dei democratici americani (sostenitori del principio di autodeterminazione in termini impositivi, senza di fatto connetterlo alla libertà dei cittadini). Nonfu un caso che il liberale Lloyd George scrivesse che “Wilson credeva nell’umanità ma diffidava di tutti gli esseri umani”.
Un simile stato di cose causò una contrapposizione continua soprattutto tra l’Italia e gli Stati Uniti (a fine maggio Wilson in persona respinse una proposta transattiva preparata su spinta inglese da un diplomatico francese, revisionata da un diplomatico americano ed accettata da Sonnino; il motivo era che Wilson era ostile a che l’Italia si insediasse sulle coste orientali dell’Adriatico e voleva che l’Italia avesse il minor numero possibile di isole dalmate) ed impediva qualunque accordo. Nel complesso divenne chiaro che Orlando e la delegazione italiana non erano in grado di far valere la loro posizione e tanto meno gli importanti meriti dell’Italia con la Francia per la neutralità dell’estate di cinque anni prima (aveva consentito le vittoria francese sulla Marna). Così a metà giugno Orlando , non Sonnino, rientrò ancora una volta a Roma e, dopo aver svolto una relazione, propose alla Camera di fare il punto sulla politica estera in sede segreta. Equivaleva al non tener conto di tutte le discussioni a Parigi sull’avversione ai patti segreti. Posta a voti la proposta il 19 giugno, venne respinta 262 a 68. E il Governo Orlando si dimise.
In quattro giorni si formò il nuovo Gabinetto affidato all’economista Francesco Saverio Nitti, radicale, che comprendeva parecchi ministri vicini a Giolitti. Cinque giorni dopo a Parigi gli Alleati (per l’Italia firmarono l’ormai ex Ministro degli Esteri uscente – quale ultimo atto prima di essere sostituito alla Conferenza dal nuovo Ministro Tittoni – e alcuni funzionari) riuscirono a far accettare alla Germania il Trattato di Pace, concepito in termini talmente duri da aver provocato sette giorni prima (il 21 giugno) un episodio senza precedenti. Il Comandante della flotta tedesca, von Reuter, per non essere costretto a consegnare l’intera flotta d’alto mare agli Alleati, ordinò ai suoi ufficiali il totale autoaffondamento della flotta (circa 130 navi di varia stazza) nella base inglese dell’alta Scozia (Scapa Flow) ove era stata internata dopo l’armistizio del novembre precedente.
Da ricordare inoltre che l’estrema durezza del trattato di Pace imposto alla Germania (cessione territori, consegna armamenti, rimborsi economici), indusse in autunno un alto funzionario della delegazione inglese, il liberale John Maynard Keynes, a scrivere un profetico volumetto, in cui spiegava che l’estrema durezza del Trattato aveva posto le basi di un’ulteriore guerra mondiale (argomento che ho già trattato più in dettaglio al precedente paragrafo 4.2, parte finale).
4.2 b . 2 m – Il nuovo governo Nitti e l’avventura di D’Annunzio a Fiume. La nascita del Governo Nitti avveniva in un’atmosfera non favorevole. La Conferenza di Parigi firmava un Trattato di Pace con la Germania, in cui all’Italia si assegnava Trento, Trieste, Istria, ma non la Dalmazia e le zone contigue previste nel Patto di Londra. Del resto la sconfitta della linea seguita con pervicacia da Sonnino e avallata da Orlando, era testimoniata dall’assenza dei due nel nuovo Governo. L’assetto neonato provocò dure critiche da parte dei nazionalisti, degli ex combattenti, sfociate anche in scontri di piazza. Ancor prima che Nitti andasse alle Camere, inoltre, vi furono forti tumulti per il caro vita con saccheggi di punti di vendita e a Fiume si verificarono gravi incidenti, seppure per futili ragioni, tra i soldati francesi e quelli italiani appoggiati dai fiumani.
Quando si presentò alla Camera, il 9 luglio, Nitti indicò quattro capisaldi del suo Governo. Concludere le trattative di pace, difendendo con fede le aspirazioni italiane. Passare rapidamente dallo stato di guerra allo stato di pace, abolendo tutto ciò che la guerra rese necessario, e che la pace rende superfluo e anche dannoso. Attuare una ferma politica di prezzi, senza cui è impossibile alleviare le condizioni di esistenza del popolo e garantire la pace sociale. Pronta adozione degli ordinamenti economici e finanziari richiesti dalla nuova situazione. E su questi quattro punti ottenne una maggioranza schiacciante (95%). Si vide ben presto che i nodi principali da sciogliere erano tre. Uno, la politica estera (reinserire l’Italia tra chi dirigeva la Conferenza di Pace). Il secondo, solo interno (gli effetti della smobilitazione militare). Il terzo, di origine interna ma con importanti riflessi internazionali (la questione di Fiume).
Quanto alla politica estera, Nitti , mancando di esperienza, volle evitare di occuparsi di persona della Conferenza di Pace e perciò , mantenendo per sé l’interim ministeriale agli Esteri, scelse di fare Ministro un esperto del ramo, Tommaso Tittoni, in precedenza altre due volte agli Esteri. Tittoni invertì la scala delle priorità di Sonnino (che erano Adriatico, Asia Minore, Africa) , convinto che lo sviluppo degli interessi italiani nelle colonie africane fosse altrettanto importante della questione Adriatico orientale. Pertanto, dichiarato per prima cosa che l’Italia non aveva rivendicazioni in Anatolia, che avrebbe accettato le decisioni degli altri in materia, e che rinunciava al Dodecaneso, raggiunse un accordo con la Grecia per l’Albania e la Tracia. Questo rabbonì il trio dominante nella Conferenza di Pace. Non servì molto a Tittoni sulle richieste di sistemazioni nelle colonie africane (nonostante fossero molto ragionevoli), servì invece ad indispettire ancor più in Italia i nazionalisti contro il Governo. In ogni modo, Tittoni raggiunse accordi con Francia ed Inghilterra per definire l’applicazione dell’art. 13 del Patto di Londra riguardo alcune zone africane. Mentre non riuscì in alcun modo a scalfire la chiusura e la diffidenza degli Stati Uniti sull’Adriatico orientale, Wilson era irremovibile. E quindi l’azione di Tittoni non ebbe successo, neppure con lo scoppiare dell’improvvisa vicenda dell’occupazione di Fiume da parte dei legionari italiani a metà settembre. Restava la sostanza dell’isolamento dell’Italia creatosi con la politica di Sonnino avallata da Orlando.
Quanto al secondo nodo, da tener presente che dei 5.650.000 soldati del periodo bellico, a parte i 650 mila uccisi, quelli che nell’estate del ‘19 erano già smobilitati (incluso il milione di feriti più o meno gravi che appesantivano il problema) erano in uno stato assai precario, per lo più non trovando occupazione e quindi avendo difficoltà di sussistenza; poi c’erano quelli ancora in servizio che temevano di trovarsi presto nella medesima condizione. Insomma, numeri di gran rilievo su 37 milioni di abitanti circa.
Essendo questo lo stato di cose e nella prospettiva di future elezioni politiche, la propensione liberale del governo lo indusse – sulla scia dei lavori parlamentari iniziati dopo la riforma del dicembre ’18 – ad accogliere le considerazioni dei due maggiori partiti più sensibili alle masse, il PSI (che sul punto accettava la proposta Turati) all’opposizione, il PPI in maggioranza. La prima quindicina dell’agosto del ’19. Nitti effettuò una vera e propria rottura nei criteri elettorali. Superò i collegi uninominali e adottò il sistema di voto proporzionale in 54 circoscrizioni su liste di candidati. Con un’ulteriore importante specifica voluta dai giolittiani nella sostanza. I candidati potevano essere votati sia mediante la preferenza nella lista in cui erano presentati sia mediante l’aggiunta del rispettivo nome in qualsiasi altra lista. Con tale meccanismo, le liste del PSI e del PPI erano favorite dalla ripartizione dei seggi attraverso il sistema D’Hondt (che avvantaggia l’avere più voti) mentre i candidati liberali usufruivano di fatto, oltre che dei voti nelle liste liberali, anche delle aggiunte ricevute nelle altre liste (perché, determinato con il voto di lista il numero dei seggi ottenuti dalla lista, venivano eletti i candidati in ordine di preferenza, aggiunte incluse). Insomma, un sistema concepito per mettere a disposizione dell’elettore del suffragio universale maschile (nel medesimo periodo la Camera votò una legge per estendere il voto alle donne, decaduta per la fine della legislatura) un sistema più articolato di rappresentanza che premiasse sia i più grossi che le minoranze.
Inoltre, Nitti istituì la Guardia Regia, destinata a affrontare i disordini, ma inadatta a fronteggiare il forte aumento dei sindacalizzati e della pratica dello sciopero. Oltretutto, i militari che lasciavano il servizio nell’esercito, restavano isolati e ingrossavano le fila dei nazionalisti, se non direttamente del Fascio di Combattimento. All’inizio settembre il Governo fece un’ampia e articolata amnistia per i disertori purché non passati al nemico, per i renitenti (circa 600.000 uomini) non rimasti assenti oltre sei mesi. Provvedimenti di per sé corretti, ma non focalizzati sulle condizioni materiali di quei cittadini. Così non cessavano gli scioperi e, specie in Sicilia e nel centro–meridione, le occupazioni delle terre.
Quanto al problema di Fiume, quello con importanti riflessi internazionali, covava da tempo sotto la cenere. In quel periodo D’Annunzio si ingegnò a riattizzare il fuoco in più occasioni. A Roma anche con le maniere forti, ma venne fatto rientrare nei ranghi dalle cariche della Guardia Regia. A Fiume, la città restava scossa dalle violenze scoppiate a luglio e proseguite in agosto, che avevano indotto gli Alleati a decidere l’allontanamento dei Granatieri di Sardegna, le truppe italiane sul luogo molto benvolute dalla popolazione. Peraltro, l’ultimo giorno di agosto, un ristretto gruppo di tenenti riuniti a Ronchi, un centinaio di chilometri da Fiume, giurarono che Fiume doveva essere italiana, per onorare i morti che avevano dato la vita per la vittoria. Così invitarono D’Annunzio che si trovava a Venezia, a capeggiare un reparto di granatieri armato, addestrato, già nella zona di Fiume, capace di provocare l’insurrezione dei fiumani. D’Annunzio accettò stabilendo la data nella notte tra l’11 il 12 settembre, anche per prevenire la polizia inglese incaricata di occupare la città. Tra l’altro, il 10 settembre fu firmato in un quartiere di Parigi il Trattato di Pace con l’Austria – assai favorevole per l’Italia in termini economici e territoriali – che però non definiva i confini con lo Stato Jugoslavo né la condizione di Fiume.
In tale contesto, nel pomeriggio dell’ 11 settembre D’Annunzio, febbricitante da giorni, dopo aver chiesto all’amico Mussolini l’appoggio stampa, si mosse in auto da Venezia e si spostò a Ronchi. Lì, nella notte, arrivarono dall’autoparco di Palmanova (distante circa trenta chilometri) una quarantina di camion (ottenuti dai soldati pistole in pugno) che portarono verso Fiume tutti i soldati di D’Annunzio. Durante la strada si aggiunsero diversi altri soldati, un generale italiano inviato apposta tentò di ordinare il ritiro (ma finì per desistere colpito dall’eloquio di D’Annunzio), all’alba un mezzo della colonna divelse la sbarra posta di traverso sulla strada e la colonna entrò in città , accolta da una folla di abitanti festosi sempre più imponente al passare delle ore. Nel tardo pomeriggio, D’Annunzio parlò ad una piazza gremita e plaudente, chiedendo la conferma della scelta di adesione all’Italia votata il 30 ottobre del 1918 e avutala proclamò l’annessione di Fiume alla patria. La mattina presto di due giorni dopo, le truppe francesi ed inglesi, che erano rientrate nelle caserme o sulle navi, abbandonarono Fiume.
In Italia, il colpo di mano di D’Annunzio venne appoggiato in ogni modo dal Popolo d’Italia di Mussolini (che organizzò anche una raccolta fondi nazionale), dalle associazioni degli ex combattenti e suscitò molta emozione in ampi strati di cittadini. Naturalmente, le reazioni del Governo furono di biasimo (nonostante le accese proteste dei nazionalisti e dello stesso D’Annunzio) ma Nitti era troppo preoccupato delle reazioni internazionali per poter cessare i tentativi di bloccare un’avventura del tutto estranea ai criteri rappresentativi. Invece i fiumani trovavano appoggi materiali da Trieste e riuscirono pure a catturare alcune navi con notevoli provviste. Qualche giorno dopo, il Consiglio della Corona espresse il parere di non usare la forza contro D’Annunzio (così furono fatti tentativi di trattative tramite Badoglio, che restarono senza esito). In ogni modo la riunione rese chiaro che la Corona non voleva rinunciare all’impostazione in chiave risorgimentale, e dunque dava spago all’esaltazione nazionalista. Il 28 settembre la Camera, riaffermò l’italianità di Fiume e rinnovò la fiducia al Governo con margini più ridotti (298 voti contro 148). Il giorno dopo, fu sciolta la Camera e fissate le elezioni per il 16 novembre.
L’azzardo di D’Annunzio fu premiato e Fiume restò nelle sue mani ancora per moltissimi mesi. Tuttavia, Nitti scelse la sostanziale cautela, nella certezza che il grande impegno della stampa a sostegno dell’impresa fiumana non corrispondesse alla reale convinzione dei cittadini. Quindi preferiva affrontare le elezioni – in cui sapeva che i favoriti fossero i socialisti del PSI e i cattolici del PPI , partiti per struttura più vicini alle masse – però dimostrare nei fatti che l’esaltazione di D’Annunzio e dei nazionalisti sulla gioventù, sulla guerra rivoluzionaria, sui destini della patria e sul tributo ai caduti, poteva incontrare il favore letterario ma non quello della comune opinione pubblica accorta sui problemi concreti della vita da risolvere.
L’impostazione di Nitti, peraltro, trascurava almeno tre aspetti decisivi. L’enorme pressione che il successo della rivoluzione marxista in Russia stava esercitando da un anno sul modo d’essere dei socialisti (sempre più attirati emotivamente dai sogni promessi dai russi, che non dalla concreta politica delle riforme a passo a passo tramite le opportune alleanze). La circostanza che il combinato disposto del suffragio universale maschile e dell’adozione del sistema proporzionale, avrebbe finito per corrodere la modalità della selezione dei politici più attenti alla libertà dei cittadini su cui si reggeva il prevalere del modo di governare di Giolitti e la prolungata stabilità. L’eventualità che il pericolo di un successo dei rossi conseguente alla introdotta instabilità inducesse una parte cospicua di elettori a cercare difesa nell’ingrossare le fila dei conservatori alternativi ai rossi (non liberali e illiberali) senza rendersi conto che pure in tal modo facevano regredire il fondarsi sulla centralità del cittadino.
Il trascurare questi tre aspetti, caratteristica pratica di Nitti, accelerò il maturare della crisi politica liberale. Gli esponenti liberali riuscivano sempre meno ad imprimere al Governo un ruolo di guida per costruire una società più aperta. E oltretutto dovevano misurarsi con l’agire della Corona, propensa ad ogni costo al conservare la tradizione e non all’innovarla.