Sul votare Trump per dispetto (a Beppe Severgnini)

Caro Severgnini, 

Le scrivo dopo oltre un quindicennio, perché, da Suo lettore assiduo che apprezza abitualmente la Sua mentalità liberale, trovo fuori tono le conclusioni della Sua risposta dal titolo Votare Trump per dispetto.

In estrema sintesi, l’affidarsi alle scelte dei cittadini è la caratteristica distintiva dei liberali (che alcune  culture di potere richiamano quale abbellimento privo di coerenza) ma funziona solo a condizione di operare in un clima adatto a farla funzionare. Allora, specie in elezioni politiche su vasta scala, il peso della valutazione della personalità e del progetto di un candidato ha sì molto rilievo, ma viene dopo il peso del giudizio sul modo di governare giudicato a quel turno elettorale, che è un peso tanto più prevalente quanto più il governo giudicato ha operato contro i valori liberali a partire da quello dell’attenzione agli interessi e alle indicazioni dei cittadini. Tale meccanismo è tipico della mentalità liberale, la quale usa il metodo individuale per meglio convivere tra diversi e non per dare privilegi al singolo cittadino individuo. 

In un quadro simile, il criterio di scegliere il meno peggio al momento del voto, non si può riferire al solo candidato, ma deve principalmente tener conto della situazione di fatto nell’istituzione in cui si vive. Nel caso americano, oltretutto, il candidato avversario di Trump proseguiva materialmente il governo in scadenza, e quindi votarlo (perché il personaggio Trump è ostico) avrebbe significato appoggiare scelte e linee adottate finora, vale a dire una connotazione elitaria da manuale.    

Chi a questo punto tira fuori il pericolo che con Trump correrebbe la democrazia, è il tipico personaggio non liberale (quanto meno). Preferisce esser governato dal conformismo dei padroni del vapore, piuttosto che dalle scelte anche drastiche dei cittadini, i quali giudicheranno di nuovo tra quattro anni (nella fattispecie per forza, siccome Trump non può essere eletto una terza volta). Per usare l’esempio che Lei fa in chiusura, per disinfestare dai tarli che sono nel pavimento, non si può continuare a nutrirli con il legno di cui vivono. 

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Sul rinvio alla Corte di Giustizia UE

I Giudici della Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma hanno rimesso alla Corte di Giustizia Europea il trattenimento di sette migranti, soccorsi in mare fuori dei confini italiani, che il Governo intendeva trasferire in Albania nei centri di Giader. La remissione è stata fatta ponendo quattro quesiti  che chiedono ai Giudici UE di chiarire se vi sia contrasto tra la definizione di Paesi sicuri emergente dalla disciplina sovranazionale e quella il decreto legge del 23 ottobre scorso emanato in materia dal Governo Italiano.  Tale rinvio nega la convalida dei fermi e perciò equivale ad una bocciatura della norma quanto ai suoi effetti immediati.

Quest’atto compiuto dalla Sezione Immigrazione configura un passaggio di estrema gravità dal punto di vista politico costituzionale italiano. Non per la remissione in sé , quanto per la romanzesca motivazione esplicitata nell’atto stesso. Infatti nella nota di accompagnamento la Presidente della Sezione scrive che “i criteri per la designazione di uno Stato come Paese di origine sicuro sono stabiliti dal diritto dell’Unione europea (…) che, notoriamente, prevale sulla legge nazionale ove con esso incompatibile”. Un’affermazione tipica di chi tenta di far credere che esista già un’UE compiuta quale soggetto sovranazionale. Il che non è affatto vero, visto che in settori primari, quali proprio la politica estera e poi il fisco – e purtroppo si può agevolmente proseguire – non sussiste alcuna pattuizione comune che consenta di andare oltre la singolarità degli stati membri. 

Il ruolo della Corte di Giustizia UE, come da essa stessa riassunto, consiste nell’interpretare il diritto dell’UE per garantire un’applicazione uniforme in tutti gli Stati membri, nel dirimere le controversie giuridiche tra governi nazionali e istituzioni UE, nel chiarire come interpretare una normativa UE, nello stabilire se una normativa o prassi nazionale sia compatibile con il diritto dell’UE. Tutte attività che presuppongono l’ esistenza a monte di un diritto UE, vale a dire di una normativa votata dal Parlamento Ue e ratificata dai vari Parlamenti nazionali. Se non ci sono questi due atti, non esiste una norma europea. Ed è appunto quest’ultimo lo stato di fatto effettivo. Insomma, l’UE non è uno stato sovraordinato alla Costituzione italiana. E’ un processo in corso di unificazione secondo le norme di  procedura democratica imperniate sui cittadini.

Stando così le cose, il motivo per il ricorso alla Corte di Giustizia UE è un tentativo di raggiro. Per di più, un tentativo non piovuto dal cielo. E’ funzionale all’evitare che maturi la partecipazione dei cittadini e di fatto vuol rafforzare il potere elitario che pretende di governare senza tener conto dei loro bisogni e dei loro desideri. Perché qui sta il nodo. Una politica estera comune non esiste ancora perché  nessun cittadino UE, né direttamente né tramite i rappresentanti parlamentari, ha votato al riguardo. E non la fa esistere sorvolare sulla circostanza che ad oggi il definire uno stato sicuro è una evidente scelta di politica estera fatta da ciascun paese membro che nessuna direttiva verticistica può  imporre (e neanche essere surrogata dai cosiddetti diritti di asilo universali). 

Non esistendo la politica estera UE, la scelta di rimettere alla Corte di Giustizia UE la valutazione di come vadano definiti gli stati sicuri, è un gioco di prestigio per eludere la fondamentale questione politica del voto dei cittadini. E un simile gioco di prestigio stride con  la professionalità dei Giudici  protagonisti.

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La difficoltà delle élites (a Danilo Taino)

Caro Taino,

Desidero dirLe che ho apprezzato il Suo pezzo di stamani. Trattando di Davos, senza fronzoli indica l’effettivo punto del successo attuale di Trump – e in genere da pò di tempo delle destre in vari paesi occidentali–: “non è un gran momento per i circoli d’élite”. Perché le maggioranze finora governanti con ispirazione a loro dire democratica e, sempre a loro dire, fornendo l’esclusiva garanzia della libertà, hanno formato un’élite che pensa solo ai privilegi di cui gode e riduce il governare a rabbonire i cittadini senza preoccuparsi del loro giudizio e di cosa pensino. Questa attitudine di rifiutare il fisiologico cambiare del vivere, è seconde me la vera radice per cui cresce l’alternativa ai circoli di élite. Un’alternativa purtroppo in termini di destra ma figlia di una sinistra oramai sperimentalmente incapace di usare il criterio delle idee per scegliere una strada di governo. L’unica cosa che conta sarebbe il conformismo del potere.

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Cronologia del Liberalismo (cap. da 4.2 b.2 i a 4.2 b.2 m)

4.2 b . 2  i  I nodi del primissimo dopoguerra in Italia. Subito dalle prime settimanefu evidente che  la fine della guerra riguardava gli eserciti ma non la dinamica politica, dei rapporti internazionali e interna ai vari paesi.  Il motivo era che assumeva sempre più rilievo il dissolversi il modo d’essere tradizionale degli stati di fatto nelle mani di gruppi dirigenti legittimati dai rispettivi titoli storici (seppure di varia natura, dinastica, militare, economica). Al suo posto andava assumendo maggior rilievo lo scontro tra le differenti idee sul come governare lo stato. In particolare quelle fautrici della rivoluzione marxista, molto rafforzate dall’essere arrivate al potere a Mosca, quelle nazionaliste fautrici dei processi identitari di ogni paese e infine quelle, che iniziavano a fare capolino, più inclini a coinvolgere i cittadini nella direzione della cosa pubblica (secondo le tesi dei pensatori liberali, peraltro ancora non abbastanza penetrate negli elettori in carne ed ossa).

Di conseguenza, terminata la guerra in armi, il clima politico restò molto agitato. In ogni modo le speranze rivoluzionarie dei marxisti ebbero vita brevissima in due paesi, la Germania e l’Ungheria, appena usciti dal far parte di quell’Impero dissoltosi d’un colpo a seguito della sconfitta militare.  In Germania, i socialisti rivoluzionari spartakisti tentarono di scimmiottare i soviet russi ma furono in pochi giorni estromessi dall’alleanza di governo a prevalenza dei socialisti e del Comando Supremo. I tentativi dei marxisti russi non riuscirono neppure in Ungheria e in Baviera, dove erano sorte repubbliche filorusse che durarono qualche decina di giorni. Nel complesso, il ritorno alla pace fu caratterizzato da tensioni molto forti nei territori degli ex Imperi Centrali. Che peraltro al momento si impegnarono per trovare composizioni nell’ambito parlamentare. In particolare, attraverso riunioni a Weimar nella Turingia, venne elaborata anche la Costituzione della nascente Repubblica tedesca, che per un quindicennio regolerà la vita pubblica. Inoltre, più a sud, nei giorni della battaglia di Vittorio Veneto, a Zagabria era stato deciso da parte di Serbi, Croati e Sloveni la formazione dello Stato Jugoslavo, per separarsi dagli Asburgo in attuazione del disegno della Francia e dell’Inghilterra di avere un punto di riferimento alleato nei balcani, anche per riequilibrare le mire italiane.

In questo quadro generale, il modo di affrontare il dopo guerra in Italia fece immediatamente emergere una sostanziale divisione secondo indirizzi riallacciati alle posizioni della primavera 1915. Da una parte, i sostenitori della necessità, quasi un obbligo morale, di completare il Risorgimento, guidati dalla Corona, festeggiavano la vittoria  con intensità (non per caso il Re percorse in lungo e in largo la parte orientale dell’Italia settentrionale, recandosi a Trieste insieme a Diaz; e del resto, dopo che il 30 ottobre Fiume aveva deciso di unirsi all’Italia, nei giorni della fine delle ostilità la Marina Italiana aveva occupato diverse città dell’Istria spingendosi fino a Zara e a Sebenico in Dalmazia).  Dall’altra parte, l’area liberale – e in particolare quella vicino a Giolitti – spingeva a fare emergere presto la necessità di affrontare la non facile situazione del momento.

Così a metà novembre, parlando alla Camera, il Presidente del Consiglio Orlando, fece un punto realistico della difficile situazione. Sul piano internazionale le questioni insolute sul come realizzare la pace erano parecchie  e oltretutto costellate di non pochi dissidi tra i vincitori (negli stessi giorni, truppe alleate francesi e inglesi apparvero a sostegno degli slavi, nelle zone costiere dalmate occupate dalla Marina italiana). E su quello interno occorreva  pagare i debiti di guerra, risarcire i non pochi danni bellici, e risolvere la mole di questioni derivanti dalla smobilitazione dell’esercito e delle industrie legate alla guerra. Insomma ci si doveva preparare a nuovi sacrifici. Nelle immediate settimane successive, Orlando adempì alla promessa del dopo Caporetto e fece con un decreto legge una riforma elettorale che dava il voto politico a tutti gli ex combattenti anche minorenni.

In più, tenendo anche conto che i tre principali alleati (Francia, Inghilterra, Stati Uniti) per varie ragioni diffidavano della possibile influenza italiana nei Balcani e appoggiavano il formarsi di uno Stato jugoslavo indipendente ( cui lavorava da tempo il Comitato jugoslavo di Londra), all’Italia il Consiglio interalleato riconobbe il diritto di occupare i tenitori promessi dal Patto di Londra. Però nelle medesime settimane di novembre  si svilupparono negoziati fra Zagabria, Belgrado e appunto Londra, che portarono a proclamare, il 1 dicembre, il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni.

In questo quadro,  le tensioni tra le due strategie – esaltare il successo risorgimentale o prepararsi a nuovi sacrifici – covavano sotto la cenere. Così, a dicembre 1918, quando si trattò di decidere la linea da tenere alla Conferenza di Pace nel gennaio a Parigi, il Governo si divise tra la linea di Bissolati e Nitti (che sosteneva l’opportunità di qualche rinuncia sui territori da assegnare all’Italia secondo il Patto segreto di Londra del ’15, in cambio di ottenere il protettorato di Fiume e di Zara, trasformate in città libere) e la linea di Sonnino  nettamente contraria. Il Presidente del Consiglio Orlando e il Generale Diaz tentarono una mediazione ma Sonnino fu irremovibile sul rispetto del Patto di Londra e alla fine la spuntò (convinto come al solito che le carte sottoscritte dovessero prevalere sullo stato delle cose, nonostante la posizione del Presidente degli Stati Uniti Wilson, ostile al Patto di Londra).  Così, a fine dicembre, Bissolati si dimise, seguito poi da Nitti ed altri due Ministri, il che provocò un rapido riassetto del Ministero, ma restò irrisolta  la questione diversa strategia (tanto che due settimane dopo ci fu un altro riassetto governativo alla vigilia della partenza per la Conferenza di pace).

Pochi giorni dopo, i primi gennaio del 1919, il Presidente americano Wilson venne in Italia per un breve periodo, fu ricevuto dal Re (con il quale andò in Parlamento) e ricevette un’accoglienza trionfale a Roma, a Genova, a Torino e a Milano. Nella sostanza fu un ospite funzionale ai fautori dell’epopea risorgimentale, i quali, presi dalle loro convinzioni passatiste improntate all’euforia, non volevano prendere atto della effettiva posizione di Wilson espressa in varie occasioni, a cominciare in un discorso ufficiale alla Camera degli Stati Uniti e ripetuta poi più volte. Tra l’altro, nei suoi numerosi discorsi in Italia, Wilson  era esplicito nel sostenere la sua convinzione di presbiteriano praticante, per cui l’obiettivo era realizzare una sorta di internazionale borghese promotrice di un’utopica pace dei popoli (non scordiamo che a tal fine aveva rotto l’isolazionismo americano).

Due settimane dopo, venne costituito il Partito Popolare dei cattolici, il PPI, che si richiamava alla realtà del dopoguerra e propugnava un  “programma sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai principi cristiani”. Segretario fu Luigi Sturzo, un sacerdote siciliano che operava nelle campagne da due decenni e che riteneva giusto dare ai cattolici un raggruppamento politico di privati cittadini, giuridicamente slegato dalla Chiesa e da ogni sua organizzazione quale l’Azione Cattolica.

4.2 b . 2 l – Durante la Conferenza di Pace. Nonostante le numerose avvisaglie, il governo Orlando fu molto sorpreso quando alla Conferenza di Pace a Parigi  (inizio 18 gennaio 1919) dovette prendere atto che le richieste italiane sui territori costieri dall’Istria alla Dalmazia erano tenute in scarsissima considerazione. Innanzitutto nella Conferenza spiccava il trio del Presidente degli Stati Uniti ( Wilson) , del Premier inglese (Lloyd George) e del Primo Ministro francese  (Clemenceau), al cui interno era di fatto dominante Wilson, per il suo tono predicatorio e messianico più che per l’esperienza politica. Peraltro Wilson già a gennaio del 1918 aveva formulato in 14 punti quale avrebbe dovuto essere l’ordine mondiale dopo la guerra. E questo ordine si configurava in contrasto con le richieste italiane.  

Fin dal primo punto, in cui si affermava che “Pubblici trattati di pace, conclusi apertamente, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali privati di qualsivoglia natura, ma la diplomazia procederà sempre francamente e pubblicamente”. E Wilson attribuiva molta importanza al rimuovere la pratica del segreto. Invece, la linea scelta dal Ministro degli Esteri Sonnino e seguita dall’Italia fin dall’aprile del ’14, si fondava sul Patto di Londra, che era stato volutamente tenuto segreto al Parlamento di Roma. Per cui Wilson era fermamente deciso a non riconoscere i compensi che quel Patto aveva promesso all’Italia. E lo dichiarava sempre più apertamente.

A ciò si aggiunga che Wilson poneva anche un’altra questione di principio, anch’essa di rilievo. Mentre le pretese italiane sui territori irredenti (vale a dire quelli soggetti a sovranità terze pur avendo prevalente popolazione italiana) erano pienamente giuste e quindi andavano accolte, le pretese relative a larga parte delle coste dell’Adriatico orientale non riguardavano terre irredente (il punto 9 affermava che le linee di nazionalità dovevano essere chiaramente riconoscibili) ed anzi il pretenderle rientrava in una logica di natura imperiale, per cui non dovevano essere riconosciute. Che alla Conferenza di Pace la situazione fosse questa, divenne pubblico. E ciò ebbe forti conseguenze nei rapporti con gli slavi e nel dibattito politico in Italia.

Quanto agli slavi, essi avevano mutato atteggiamento alla svelta nei confronti degli italiani (dai quali erano stati aiutati non poco) dopo aver conosciuto il contenuto dei 14 punti di Wilson, il cui punto 11 – ma in generale anche il 12 – attribuivano agli slavi espliciti diritti di autonomia. E quando a metà febbraio del ’19 gli italiani rifiutarono a Parigi la proposta slava di fare Wilson arbitro della controversia territoriale sulla Dalmazia, l’Istria e Trieste, si verificarono gravi violenze contro gli italiani a Lubiana, Spalato e Ragusa. Gli slavi erano altresì  incoraggiati dai Francesi, i quali miravano a fare di Trieste e di Fiume dei porti per lo smercio in Italia dei prodotti delle loro colonie africane. Non solo . Nei territori slavi, alti ufficiali francesi ed inglesi in divisa, presero parte a comizi antiitaliani e anche violenti contro le truppe italiane. Wilson temeva che le pretese italiane minassero la pace e in ogni caso sosteneva che Fiume non era italiana ma doveva restare un porto internazionale aperto ai traffici per arrivare nell’Europa centrale, evitando ogni tentazione monopolistica da parte dell’Italia.

Simili notizie, ovviamente, si diffondevano  anche in Italia. E provocavano reazioni sempre più forti negli ambienti che da anni stavano cavalcando le tesi del completare il Risorgimento, tutti in modo acceso anche se facenti parte ciascuno di filoni  differenti (il mancato riconoscimento dei territori sulle coste orientali dell’Adriatico suscitava in alcuni ambiti angosciosi interrogativi sul perché della guerra). Tali reazioni si mischiavano peraltro ad almeno due ulteriori questioni. Quella del propalarsi del sogno rivoluzionario del marxismo russo, che raggruppava non soltanto i marxisti (pure una parte dei reduci delusi e  perfino gli imboscati di guerra preoccupati del crollo dei loro profitti con la pace) e che il 1° marzo 1919, tenne a Milano una grandissima adunata di popolo eccitato, contro il Re e contro la vittoria bellica, invocando un mondo migliore. E poi la seconda questione che i gravi problemi economico sociali evocati da Orlando a novembre erano incombenti davvero. Principalmente  quelli del debito pubblico.  Purtroppo, però, il Governo non riusciva a fornire risposte adeguate in termini economici e di aiuto civile e di conseguenza rafforzava la spinta al sovversivismo, che si manifestava sempre più in scioperi diffusi e partecipati.         

Contestualmente, peraltro,  tra i fautori del completare  il Risorgimento iniziava a profilarsi un altro gruppo, proveniente dai socialisti che erano stati interventisti e che erano sempre meno marxisti per il motivo che “il capitalismo è ancora capace di ulteriori svolgimenti. Non è ancora esaurita la serie delle sue trasformazioni…..E sono un male i nuovi dittatori statali nelle fabbriche e nelle campagne. Questo gruppo, intorno alle 150 persone, si riunì il 23 marzo ’19 in Piazza San Sepolcro a Milano, sotto l’egida del Direttore del Popolo d’Italia, Benito Mussolini, e costituì i Fasci di Combattimento,  “un movimento sanamente italiano. rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico, che  pone la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti”.  Gli obiettivi erano distinti per il problema politico (tra cui voto a 18 anni e alle donne, nonché  formazione di Consigli Nazionali tecnici di settore . eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro), per il problema sociale (tra cui  giornata di otto ore di lavoro., minimi di paga, partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria, affidamento alle organizzazioni proletarie  della gestione di industrie o servizi pubblici, modificazione delle assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età da 65 a 55 anni),  per il problema militare (tra cui istituzione di una milizia nazionale con compito esclusivamente difensivo, la nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi), per il problema finanziario (tra cui una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, iI sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi, la revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell’85% dei profitti di guerra, di valorizzare la vittoria, di esaltare  i combattenti e i mutilati, i decorati al valore, glorificare i caduti).  

I sansepolcristi, fondando i Fasci di Combattimento, furono il primo nucleo  del fascismo e trovarono l‘immediato sostegno degli Arditi, che rappresentavano con decisione il malcontento dei reduci. Fin da subito, la proposta dei sansepolcristi puntava a rassicurare i reduci e chi dubitava sugli esiti della Conferenza parigina, mostrando una faccia feroce verso  gli ambienti sostenitori in superficie dei principi risorgimentali ma in pratica difensori dei propri privilegi elitari e delle tresche partitiche, nonché ostili al fare le riforme urgenti a favore della gente comune. Un atteggiamento del genere rendeva i Fasci di Combattimento i più adatti ad attirare le varie categorie della società borghese sempre più preoccupate per l’incombente prospettiva della dittatura del proletariato sul modello sovietico e quindi potenzialmente disponibili a sostenere chi fosse in grado di costituire un argine a tali minacce.

Intanto a Parigi, nella seconda metà di aprile,  la questione di quali avrebbero dovuto essere i nuovi confini dell’Italia venne finalmente affrontata in modo aperto dai quattro personaggi di punta, Wilson, Clemenceau, Lloyd George e Orlando . Inizialmente si avanzò l’idea di fare di Fiume una città libera senza controllo italiano. Ma dopo qualche giorno, Wilson ruppe gli indugi , dichiarando pubblicamente (facendo  pure uscire su un quotidiano la sua posizione) che insieme all’impero austro-ungarico era finito anche il Patto di Londra, che Fiume doveva essere  il porto “per i commerci ed i traffici, non dell’Italia, ma delle terre a settentrione e a nord-est”, che le aspirazioni dell’Italia presenti nel Patto di Londra contrastavano con i  principi dei 14 punti accettati dagli alleati e precisava che del resto quelle aspirazioni non avevano più ragion d’essere poiché non esisteva più l’antico nemico asburgico.

Sempre più stupito per la piega antiitaliana che aveva preso la conferenza, Orlando insieme a Diaz  (Sonnino restò a Parigi altri due giorni) rientrò a Roma   formulando una serie di critiche a Wilson, rivolgendosi agli Italiani e intervenendo sia alla Camera che al Senato.  Le manifestazioni di solidarietà nel corso del viaggio furono assai consistenti, a Roma addirittura trionfali. Ma il quadro politico era del tutto mutato, dato che l’indirizzo voluto da Wilson aveva spazzato via la credibilità degli Alleati e degli interventisti democratici, mettendo in luce la sostanziale fragilità della politica governativa, non in grado di impedire che la vittoria venisse  mutilata rispetto agli accordi del Patto di Londra. In ogni caso, le due Aule riconfermarono con oltre il 90% dei voti la fiducia al fine di “far valere i supremi diritti dell’Italia come condizione di una pace giusta e durevole”. Così il Governo, nonostante il dilagare degli scioperi a sfondo ideologico, decise di tornare alla Conferenza di Pace , cosa che fece la prima settimana di maggio (nel frattempo però la Conferenza aveva stabilito di sistemare il Mediterraneo orientale e le colonie tedesche in Africa, mediante mandati internazionali affidati a Francia e Inghilterra, escludendo l’Italia).  Proprio al ritorno dei delegati italiani, per la prima volta venne  consegnato  il testo del Trattato di Pace che l’Intesa vincitrice intendeva imporre alla Germania con condizioni durissime (soprattutto sotto la spinta della Francia di Clemenceau, coerente nel suo radical socialismo).

Il problema reale di Orlando stava nel tipo degli argomenti critici verso Wilson e gli Alleati. Essi furono il negare che il dissolversi dell’impero austroungarico riducesse le aspirazioni italiane, l’affermare che l’Italia aspirava con forza all’Adriatico , dato che sarebbe stata inutile la muraglia difensiva delle Alpi se si fosse lasciato aperto il fianco orientale e non si fosse portato il confine al monte Nevoso(o Sneznik, al margine della Croazia) e il rilevare che “proprio in nome del principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli, doveva essere riconosciuto a Fiume il diritto di decidere delle sue sorti, ed essa aveva già proclamata la sua italianità prima che giungessero le navi italiane.

Simili argomenti non erano tanto infondati, quanto non avevano spessore rispetto al tema centrale emergente dai 14 punti di Wilson. Mentre gli argomenti di Orlando  esprimevano la tradizionale concezione di ordine  internazionale modellato dalla lotta tra gli Stati di puro potere (impostazione tipica del Ministro degli Esteri Sonnino, fautore del primato del Governo sul Parlamento, e cara alla Corona),  Wilson poneva un modo d’essere differente modellato sull’autodeterminazione dei diversi popoli. Perfino prefigurando, nel quattordicesimo punto finale (poi divenuto il rifermento della prima parte del Trattato di Pace), che “una Società generale delle Nazioni Unite dovrebbe essere formata in virtù di convenzioni formali aventi per oggetto di fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi Stati”.   

Qui c’era un significativo scambio di ruoli. Orlando liberale, a capo di un Governo con molti Ministri  liberali, nella politica estera seguiva un criterio ispirato alla tradizione degli Stati imperniati sul potere dei gestori e poco attento alle esigenze della libertà dei cittadini. Wilson, avvocato presbiteriano, democratico con inclinazioni socialiste e messianiche, voleva gli Stati Uniti portatori di un messaggio fondato sull’autodeterminazione di ogni Stato, introducendo così un criterio liberale. Ne deriva che  un divario del genere nell’argomentare i contrapposti pareri sui confini nelle terre orientali in Adriatico, la dice molto lunga, da un lato sul processo di caduta della politica liberale italiana (ormai avviatosi e che nel giro di pochi anni avrà esiti drammatici) e dall’altro sull’incoerenza operativa dei democratici americani (sostenitori del principio di autodeterminazione in termini impositivi, senza di fatto connetterlo alla libertà dei cittadini). Nonfu un caso che il liberale Lloyd George scrivesse che  “Wilson credeva nell’umanità ma diffidava di tutti gli esseri umani”.

Un simile stato di cose causò una contrapposizione continua soprattutto tra l’Italia e gli Stati Uniti (a fine maggio Wilson in persona respinse una proposta transattiva preparata su spinta inglese da un diplomatico francese, revisionata da un diplomatico americano ed accettata da Sonnino; il motivo era che Wilson era ostile a che l’Italia si insediasse sulle coste orientali dell’Adriatico e voleva che l’Italia avesse il minor numero possibile di isole dalmate) ed impediva qualunque accordo.  Nel complesso divenne chiaro  che Orlando e la delegazione italiana non erano in grado di far valere la loro posizione e tanto meno gli importanti meriti dell’Italia con la Francia per  la neutralità dell’estate di cinque anni prima (aveva consentito le vittoria francese sulla Marna).  Così a metà giugno Orlando , non Sonnino, rientrò ancora una volta a Roma e, dopo aver svolto una relazione, propose alla Camera di fare il punto sulla politica estera in sede segreta. Equivaleva al non tener conto di tutte le discussioni a Parigi sull’avversione ai patti segreti. Posta a voti la proposta il 19 giugno, venne respinta 262 a 68. E il Governo Orlando si dimise.

In quattro giorni si formò il nuovo Gabinetto affidato all’economista Francesco Saverio Nitti, radicale, che comprendeva parecchi ministri vicini a Giolitti. Cinque giorni dopo a Parigi gli Alleati (per l’Italia firmarono l’ormai ex Ministro degli Esteri uscente – quale  ultimo atto prima di essere sostituito alla Conferenza dal nuovo Ministro Tittoni –  e alcuni funzionari) riuscirono a far accettare alla Germania il Trattato di Pace, concepito in termini talmente duri da aver provocato sette giorni prima (il 21 giugno) un episodio senza precedenti. Il Comandante della flotta tedesca, von Reuter, per non essere costretto a consegnare l’intera flotta d’alto mare agli Alleati, ordinò ai suoi ufficiali il totale autoaffondamento della flotta (circa 130 navi di varia stazza) nella base inglese dell’alta Scozia (Scapa Flow) ove era stata internata dopo l’armistizio del novembre precedente.

Da ricordare inoltre che l’estrema durezza del trattato di Pace imposto alla Germania (cessione territori, consegna armamenti, rimborsi economici), indusse in autunno un alto funzionario della delegazione inglese, il liberale John Maynard Keynes, a scrivere un profetico volumetto, in cui spiegava che l’estrema durezza del Trattato aveva posto  le basi di un’ulteriore guerra mondiale (argomento che ho già trattato più in dettaglio al precedente paragrafo 4.2, parte finale).

 

4.2 b . 2 m  – Il nuovo  governo Nitti e l’avventura di D’Annunzio a Fiume. La nascita del Governo Nitti avveniva in un’atmosfera non favorevole. La Conferenza di Parigi firmava un  Trattato di Pace con la Germania, in cui all’Italia si assegnava Trento, Trieste, Istria, ma non la Dalmazia e le zone contigue previste nel Patto di Londra.  Del resto la sconfitta della linea seguita con pervicacia da Sonnino e avallata da Orlando, era testimoniata dall’assenza dei due nel nuovo Governo. L’assetto neonato provocò dure critiche da parte dei nazionalisti, degli ex combattenti, sfociate anche in scontri di piazza. Ancor prima che Nitti andasse alle Camere, inoltre, vi furono forti tumulti per il caro vita con saccheggi di punti di vendita e a Fiume si verificarono gravi incidenti, seppure per futili ragioni, tra i soldati francesi e quelli italiani appoggiati dai fiumani.

Quando si presentò alla Camera, il 9 luglio, Nitti indicò quattro capisaldi del suo Governo. Concludere le trattative di pace, difendendo con fede le aspirazioni italiane.  Passare rapidamente dallo stato di guerra allo stato di pace, abolendo tutto ciò che la guerra rese necessario, e che la pace rende superfluo e anche dannoso. Attuare una ferma politica di prezzi, senza cui è impossibile alleviare le condizioni di esistenza del popolo e garantire la pace sociale. Pronta adozione degli ordinamenti economici e finanziari richiesti dalla nuova situazione. E su questi quattro punti ottenne una maggioranza schiacciante (95%). Si vide ben presto che i nodi principali da sciogliere erano tre. Uno, la politica estera (reinserire l’Italia tra chi dirigeva la Conferenza di Pace). Il secondo, solo interno (gli effetti della smobilitazione militare). Il terzo, di origine interna ma con importanti riflessi internazionali (la questione di Fiume).

Quanto alla politica estera, Nitti , mancando di esperienza, volle evitare di occuparsi di persona della Conferenza di Pace e perciò , mantenendo per sé l’interim ministeriale agli Esteri, scelse di fare  Ministro un esperto del ramo, Tommaso Tittoni,  in precedenza altre due volte agli Esteri.  Tittoni invertì la scala delle priorità di Sonnino (che erano Adriatico, Asia Minore,  Africa) , convinto che lo sviluppo degli interessi italiani nelle colonie africane fosse altrettanto importante della questione Adriatico orientale. Pertanto, dichiarato per prima cosa che l’Italia non aveva rivendicazioni in Anatolia, che avrebbe accettato le decisioni degli altri in materia, e che rinunciava al Dodecaneso, raggiunse un accordo con la Grecia per l’Albania e la Tracia.  Questo rabbonì il trio dominante nella Conferenza di Pace. Non servì molto a Tittoni sulle richieste di sistemazioni nelle colonie africane (nonostante fossero molto ragionevoli), servì invece ad indispettire ancor più in Italia i nazionalisti contro il Governo. In ogni modo, Tittoni raggiunse accordi con Francia ed Inghilterra per definire l’applicazione dell’art. 13 del Patto di Londra riguardo alcune zone africane. Mentre non riuscì in alcun modo a scalfire  la chiusura e la diffidenza degli Stati Uniti sull’Adriatico orientale, Wilson era irremovibile. E quindi l’azione di Tittoni non ebbe successo, neppure con lo scoppiare dell’improvvisa vicenda dell’occupazione di Fiume da parte dei legionari italiani a metà settembre. Restava la sostanza dell’isolamento dell’Italia creatosi con la politica di Sonnino avallata da Orlando. 

Quanto al secondo nodo, da tener presente che dei 5.650.000 soldati del periodo bellico, a parte i 650 mila uccisi, quelli che nell’estate del ‘19 erano già smobilitati (incluso il milione di feriti più o meno gravi che appesantivano il problema) erano in uno stato assai precario, per lo più non trovando occupazione e quindi avendo difficoltà di sussistenza; poi c’erano quelli ancora in servizio che temevano di trovarsi presto nella medesima condizione. Insomma, numeri di gran rilievo su 37 milioni di abitanti circa.

Essendo questo lo stato  di cose e nella prospettiva di future elezioni politiche, la propensione liberale del governo lo indusse – sulla scia dei lavori parlamentari iniziati dopo la riforma del dicembre ’18 –   ad accogliere le considerazioni dei due maggiori partiti più sensibili alle masse, il PSI (che sul punto accettava la proposta Turati) all’opposizione, il PPI in maggioranza. La prima quindicina dell’agosto del ’19. Nitti effettuò  una vera e propria rottura nei criteri elettorali. Superò i collegi uninominali e adottò il sistema di voto proporzionale in 54 circoscrizioni su liste di candidati. Con un’ulteriore importante specifica voluta dai giolittiani nella sostanza. I candidati potevano essere votati sia mediante la preferenza nella lista in cui erano presentati sia mediante l’aggiunta del rispettivo nome in qualsiasi altra lista. Con tale meccanismo, le liste del PSI e del PPI erano favorite dalla ripartizione dei seggi attraverso il sistema D’Hondt (che avvantaggia l’avere più voti) mentre i candidati liberali usufruivano di fatto, oltre che dei voti nelle liste liberali, anche delle aggiunte ricevute nelle altre liste (perché, determinato con il voto di lista il numero dei seggi ottenuti dalla lista, venivano eletti i candidati in ordine di preferenza, aggiunte incluse).  Insomma, un sistema concepito per mettere a disposizione dell’elettore del suffragio universale maschile (nel medesimo periodo la Camera votò una legge per estendere il voto alle donne, decaduta per la fine della legislatura) un sistema più articolato di rappresentanza che premiasse sia i più grossi che le minoranze.

Inoltre, Nitti istituì la Guardia Regia, destinata a affrontare i disordini, ma inadatta a fronteggiare il forte aumento dei sindacalizzati e della pratica dello sciopero. Oltretutto, i militari che lasciavano il servizio nell’esercito, restavano isolati e ingrossavano le fila dei nazionalisti, se non direttamente del Fascio di Combattimento. All’inizio settembre il Governo fece un’ampia e articolata amnistia per i disertori purché non passati al nemico, per i renitenti (circa 600.000 uomini) non rimasti assenti oltre sei mesi. Provvedimenti di per sé corretti, ma non focalizzati sulle condizioni materiali di quei cittadini. Così non cessavano gli scioperi e, specie in Sicilia e nel centro–meridione, le occupazioni delle terre.

Quanto al problema di Fiume, quello con importanti riflessi internazionali, covava da tempo sotto la cenere. In quel periodo D’Annunzio si ingegnò a riattizzare il fuoco in più occasioni. A Roma anche con le maniere forti, ma venne fatto rientrare nei ranghi dalle cariche della Guardia Regia. A Fiume, la città restava scossa dalle violenze scoppiate a luglio e proseguite in agosto, che avevano indotto gli Alleati a decidere l’allontanamento dei Granatieri di Sardegna, le truppe italiane sul luogo molto benvolute dalla popolazione. Peraltro, l’ultimo giorno di agosto, un ristretto gruppo di tenenti riuniti a Ronchi, un centinaio di chilometri da Fiume, giurarono che Fiume doveva essere italiana, per onorare i morti che avevano dato la vita per la vittoria. Così invitarono D’Annunzio che si trovava a Venezia, a capeggiare  un reparto di granatieri armato, addestrato, già nella zona di Fiume, capace di provocare l’insurrezione dei fiumani.  D’Annunzio accettò stabilendo la data nella notte tra l’11 il 12 settembre, anche per prevenire la polizia inglese incaricata di occupare la città. Tra l’altro, il 10  settembre fu firmato in un quartiere di Parigi il Trattato di Pace con l’Austria – assai favorevole per l’Italia in termini economici e territoriali – che però non definiva i confini con lo Stato Jugoslavo né la condizione di Fiume.

In tale contesto, nel pomeriggio dell’ 11 settembre D’Annunzio, febbricitante da giorni, dopo aver chiesto all’amico Mussolini l’appoggio stampa,  si mosse in auto da Venezia e si spostò a Ronchi. Lì, nella notte, arrivarono dall’autoparco di Palmanova (distante circa trenta chilometri) una quarantina di camion (ottenuti dai soldati pistole in pugno) che portarono  verso Fiume tutti i soldati di D’Annunzio. Durante la strada si aggiunsero diversi altri soldati, un generale italiano inviato apposta tentò di ordinare il ritiro (ma finì per desistere colpito dall’eloquio di D’Annunzio), all’alba un mezzo della colonna divelse la sbarra posta di traverso sulla strada e la colonna entrò in città , accolta da una folla di abitanti festosi sempre più imponente al passare delle ore.  Nel tardo pomeriggio, D’Annunzio parlò ad una piazza gremita e plaudente, chiedendo la conferma della scelta di adesione all’Italia votata il 30 ottobre del 1918 e avutala proclamò l’annessione di Fiume alla patria. La mattina presto di due giorni dopo, le truppe francesi ed inglesi, che erano rientrate nelle caserme o sulle navi, abbandonarono Fiume.

In Italia, il colpo di mano di D’Annunzio venne appoggiato in ogni modo dal Popolo d’Italia di Mussolini (che organizzò anche una raccolta fondi nazionale), dalle associazioni degli ex combattenti e suscitò molta emozione in ampi strati di cittadini. Naturalmente, le reazioni del Governo furono di biasimo (nonostante le accese proteste dei nazionalisti e dello stesso D’Annunzio) ma Nitti era troppo preoccupato delle reazioni internazionali per poter  cessare i tentativi di bloccare un’avventura del tutto estranea ai criteri rappresentativi. Invece i fiumani trovavano appoggi materiali   da Trieste e riuscirono pure a catturare alcune navi con notevoli provviste. Qualche giorno dopo, il Consiglio della Corona espresse il parere di non usare la forza contro D’Annunzio (così furono fatti tentativi di trattative tramite  Badoglio, che restarono senza esito). In ogni modo la riunione rese chiaro che la Corona non voleva rinunciare all’impostazione in chiave risorgimentale, e dunque  dava spago all’esaltazione nazionalista. Il 28 settembre la Camera, riaffermò l’italianità di Fiume e rinnovò la fiducia al Governo con margini più ridotti (298 voti contro 148). Il giorno dopo, fu sciolta la Camera e fissate le elezioni per il 16 novembre.

L’azzardo di D’Annunzio fu premiato e Fiume restò nelle sue mani ancora per moltissimi mesi. Tuttavia, Nitti scelse la sostanziale cautela, nella certezza che il grande impegno della stampa a sostegno dell’impresa fiumana non corrispondesse alla reale convinzione dei cittadini. Quindi preferiva affrontare le elezioni – in cui  sapeva che i favoriti fossero i socialisti del PSI e i cattolici del PPI , partiti per struttura più vicini alle masse – però dimostrare nei fatti che l’esaltazione di D’Annunzio e dei nazionalisti sulla gioventù, sulla guerra rivoluzionaria, sui destini della patria e sul tributo ai caduti, poteva incontrare il favore letterario ma non quello della comune opinione pubblica accorta sui problemi concreti della vita da risolvere.

 L’impostazione di Nitti, peraltro,  trascurava almeno tre aspetti decisivi. L’enorme pressione che il successo della rivoluzione marxista in Russia stava esercitando da un anno sul modo d’essere dei socialisti (sempre più attirati emotivamente dai sogni promessi dai russi, che non dalla concreta politica delle riforme a passo a passo tramite le opportune alleanze). La circostanza che il combinato disposto del suffragio universale maschile e dell’adozione del sistema proporzionale, avrebbe finito per corrodere la modalità  della selezione dei politici più attenti alla libertà dei cittadini su cui si reggeva il prevalere del modo di governare di Giolitti e la prolungata stabilità. L’eventualità che il pericolo di un successo dei rossi  conseguente alla introdotta instabilità inducesse  una parte cospicua di elettori a cercare difesa nell’ingrossare le fila dei conservatori alternativi ai rossi (non liberali e illiberali) senza rendersi conto che pure in tal modo facevano regredire il fondarsi sulla centralità del cittadino.

Il trascurare questi tre aspetti, caratteristica pratica di Nitti, accelerò il maturare della crisi politica liberale. Gli esponenti liberali riuscivano sempre meno  ad imprimere al Governo un ruolo di guida per costruire una società più aperta. E oltretutto dovevano misurarsi con l’agire della Corona, propensa ad ogni costo al conservare la tradizione e non  all’innovarla. 

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Conclusione della Giornata einaudiana

Convegno CONVIVERE NELLA LIBERTA’ – L’ATTUALITA’ DI LUIGI EINAUDI, Livonro 27 ottobre 2024 – Conclusione di Raffaello Morelli

Innanzitutto desidero anch’io, come Maurizio,    ringraziare tutti i relatori per il loro significativo contributo. Quelli in presenza (il sen. Vegas, il prof. Barrotta, la profsa Galli, l’avv. Prof. Morbidelli, il dott. Bellardini, l’avv. Prof. Calvosa, il prof Anselmi) e quelli in video (gli editorialisti Giovanni Orsina e Ferruccio De Bortoli, il Presidente ABI Antonio Patuelli, il Presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto e il Presidente della Banca di Lucca e del Tirreno Sergio Ceccuzzi). 

Hanno composto una celebrazione suggestiva, a conferma che  l’opera di Einaudi è tuttora viva e dà indicazioni preziose sul futuro. Del resto, il dare indicazioni politiche  è la caratteristica essenziale del liberalismo.

I  capisaldi dell’opera di Einaudi, accademica e di scrittore, sono l’indicare gli strumenti cardine del vivere liberi. Un’indicazione assai innovativa di per sé. Perché anche allora, seppur in misura minore, dominava nelle vicende pubbliche il criterio dell’immediatezza, non quello del futuro. Tanto che Einaudi, quasi stupito della difficoltà di far pensare al futuro, chiamava le sue indicazioni  PREDICHE INUTILI. Ma non lo sono affatto. Perché l’approccio liberale, non essendo emotivo, non si nutre di speranze e di illusioni per facilitare il consenso del momento. Si fonda sulla consapevolezza dell’essere liberi e seleziona  regole coerenti con la libertà aggiornandole di continuo , e tali regole danno nel tempo  frutti che maturano attraverso la costanza dei comportamenti.

Oggi i relatori  hanno mostrato con chiarezza che per Einaudi i punti essenziali  sono soprattutto due,  il buongoverno dello Stato (per stimolare  i cittadini all’indipendenza creativa individuale nell’ambito di  regole senza privilegi amicali)  e l’uguaglianza dei punti di partenza (per consentire nel convivere una gara equa tra cittadini diversi) . Criterio, quest’ultimo, che si integra con la ferma indicazione einaudiana dell’abolire il valore legale del titolo di studio, appunto per  dare nella vita maggior peso a quanto si fa in concreto rispetto ai percorsi  lontani dal concreto e  valutati con procedure pregresse.

In generale, Einaudi fu un sostenitore deciso e conseguente del continuo confrontarsi tra le iniziative dei singoli cittadini diversi , quale meccanismo principe per far funzionare la libertà nel convivere. Pertanto Einaudi si prefigge di rimuovere ogni ostacolo  sulla strada di questo meccanismo di libertà.  Non a caso, un motto famoso di Einaudi,  riscontrato in pieno nell’esperienza di ogni giorno, è che “i due estremi monopolismo e collettivismo sono  ambedue fatali alla libertà”.  Questo perché il metodo della libertà  non funziona con le teorie ideologiche o religiose, che perseguono il dover essere e impongono in ogni momento comportamenti definiti ed obbligati. Il metodo liberale, in ogni occasione, combatte il conformismo ed è attento a ciò che l‘esprimersi umano produce materialmente quale risposta alle sfide del vivere tra individui. Infatti la libertà si esercita  attraverso la lotta tra le idee e la discussione degli uni con gli altri, con il fine di capire ciò che è vivo e ciò che è morto delle tradizioni , il che comporta rifuggire il ricorso alle armi. Pertanto Einaudi ha sempre sostenuto la necessità dell’esistenza di uno Stato non tentacolare – che si estenda fino ad un punto critico e non oltre – ma al contempo ha sempre frustato le pretese dello Stato sovrano, da lui definito immondo in quanto chiuso al circolare della libertà.   Per tale motivo, Einaudi non soltanto ha dato indicazioni sul Buongoverno (uno Stato efficiente garantisce la libertà del cittadino) ma non a caso, per mettere in campo la costruzione di un nuovo tipo di Stato lontano dal tipo sovrano, ha dato anche precisi contributi alla costruzione dell’Europa, contributi che poi nei decenni sono stati applicati.

Einaudi ha fornito al metodo liberale spunti preziosi  e tutt’oggi fondamentali. Ho detto della cultura politica, ma pure  in campo economico. Ove Einaudi ha chiarito in modo definitivo che il liberismo non può prescindere dal liberalismo, dato che, quando vuol essere una teoria economica autonoma separata dal liberalismo, disattende  la libertà dei cittadini e diviene un progetto illiberale nei principi e nella pratica. E ha precisato anche che dire no al liberismo non basta per  stare nel liberalismo economico. Nell’economia il  principale segnale di liberalismo, oltre al mercato, è la diffusa  proprietà non pubblica, ed invece in Italia questa proprietà è storicamente poco tutelata, specie in ambito intellettuale. Scoraggiando gli investimenti, rallentando l’innovazione, e indebolendo la competitività delle imprese. Anche qui Einaudi va riscoperto, curando la tutela della proprietà, a cominciare  da un’equa ripartizione del risparmio. 

L’efficacia del metodo Einaudi venne comprovata dai successi ottenuti all’epoca della ricostruzione, e dell’impegno fermissimo per mantenere la stabilità monetaria, che  in sé è la garanzia per conservare  la capacità di svolgere in maniera corretta i confronti tra le diverse iniziative nella gara della vita. Il tutto si tradusse in un’economia stabilmente dinamica, alla base del miracolo economico fino ai primi anni ‘60. Basato sul profitto non come fine, bensì come mezzo.

Non si può prescindere dalla lezione einaudiana  quando indica che le scelte politiche  con cui attuare i principi di libertà, sono   intrinsecamente variabili quanto ai modi per realizzarli, a seconda dei luoghi e dell’epoca. Insomma, nel liberalismo non sono possibili politiche automatiche e ripetitive.  E non è possibile ricorrere all’utopismo, che fuoriesce dal mondo reale e così nega  il legame ineludibile della libertà e del liberalismo.

Con la sua opera Einaudi è un ulteriore importante anello dello svilupparsi dello scontro in  essere da circa quattro secoli. Da una parte, la novità del quotidiano impegno intellettuale della libertà di ogni cittadino nell’osservare il mondo e nello sperimentare le proprie iniziative in un processo di progressivo avanzamento del conoscere la realtà in evoluzione; dall’altra parte,  l‘antica ricerca di un libro sacro scritto da qualche potente o divinità nell’intento di svelare la natura del mondo una volta per tutte , presupponendo  la sua sostanziale ed immutabile  staticità.

Si tratta di uno scontro epocale che da allora sta ribaltando millenarie abitudini. Scioglie un po’ alla volta molti nodi di illibertà e aumenta il livello delle condizioni di vita nonché il numero dei conviventi. Gli oppositori dichiarati della libertà sono una minoranza. Peraltro sono moltissimi quelli che vorrebbero ripristinare la logica e gli usi del libro sacro e si oppongono all’espandersi della libertà e all’affidarsi alle scelte dei cittadini. Così,  nelle controversie,  le grandi democrazie non ricorrono più alle armi tra di loro, ma per il resto la mentalità di usare il sistema della guerra è ancor oggi molto frequente e diffusa insieme  alla  tragica realtà che ne consegue. E non solo. Anche all’interno delle democrazie sono ampie le fasce avversarie del metodo della libertà nel convivere, le quali di continuo usano logiche non liberali nel fare le leggi e ancor più nell’interpretarle (in prima fila le burocrazie pubbliche che vengono meno alle loro funzioni). Per fare un esempio degli ultimi giorni, non è ancora stata applicata la legge del 2015 che organizza unitariamente i quattro ispettorati del lavoro distinti e scollegati. Con i noti tragici esiti.

In conclusione, va detto che richiamare le indicazioni politiche di Einaudi è un obbligo per chiunque pensi al futuro della società impegnandosi nel costruire le condizioni adatte a concretizzare l’esercizio dei diritti dei cittadini individui. Questa giornata  ha adempiuto il suo compito. Quindi a nome dei circoli organizzatori della giornata (Circolo Einaudi e il Circolo  G.Emanuele Modigliani) concludo ringraziando di cuore il Comitato Nazionale per i 150 anni della nascita di Luigi Einaudi, che ha reso possibile questa giornata finanziandola  al 90%  ,  quando il Comune, a parte la cortese messa a disposizione della sala attrezzata, ha contribuito per  solo un quarto di punto percentuale, mentre di solito destina migliaia di euro a feste di ogni genere. Evidentemente ritenendole più produttive per la città che non la cultura,  specie quella liberale.

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Intervista sulla Giornata Einaudiana

Intervista del Capo Redattore Centrale de Il Tirreno Luca Daddi in merito al Convegno su Luigi Einaudi a Livorno, Biblioteca dei Bottini dell’Olio, del 28 ottobre

Come mai è stata scelta la città di Livorno per questo convegno dedicato a Luigi Einaudi?  In realtà il Convegno di Livorno rientra nelle numerose celebrazioni dei 150°  anni dalla nascita di Einaudi, organizzate durante l’anno  in tutta Italia dall’omonimo  Comitato sorto apposta sotto l’alto patrocinio di Mattarella e presieduto dal sen. Vegas, che  alla Biblioteca dei Bottini dell’Olio sarà il primo relatore. 

Quali sono le finalità che vi prefiggete con questa iniziativa? Iniziare a sollevare la cappa di piombo che seppellisce il confronto delle idee  non in linea con il conformismo dei cittadini.  In specie,  a Livorno e per  le idee liberali che di natura promuovono il cambiamento nella convivenza.  Questo è il senso dell’intervento ai Bottini dell’Olio in quanto relatori,  di diversi esponenti della cultura liberale italiana attiva in svariati settori quali l’università, l’editoria, il mondo bancario, il settore professionale, tutti cittadini espressione di un’Italia  che opera in autonomia senza ricorrere all’aiuto del potere pubblico. Ormai, in particolare  a Livorno, il declino culturale e dei rapporti civili nell’ultimo ventennio è giunto a livelli  così preoccupanti  da non essere curabile con le distrazioni festose.

Da un punto di vista politico quale è l’attualità del messaggio di Einaudi oggi?  L’urgente necessità di riscoprire il ruolo decisivo della libertà del cittadino per potenziare la capacità di conoscere il mondo e convivere al meglio.  Per  riuscirvi, è decisivo stimolare di continuo il confronto tra le iniziative dei singoli cittadini diversi. E dunque applicarsi al rimuovere ogni ostacolo  sulla strada dei meccanismi delle libertà.  Non a caso, Einaudi disse “i due estremi monopolismo e collettivismo sono  ambedue fatali alla libertà”.  Perché il metodo della libertà  non funziona con le teorie ideologiche o religiose, che perseguono il dover essere e in ogni momento impongono comportamenti obbligati. Il metodo liberale combatte di continuo il conformismo ed è attento a ciò che gli umani producono in risposta alle sfide del vivere tra diversi. Infatti la libertà si esercita  attraverso la lotta tra le idee e la discussione degli uni con gli altri, con il fine di capire ciò che è vivo e ciò che è morto delle tradizioni e dunque di rifuggire il ricorso alle armi. Sperimentalmente è il sistema più fecondo apparso finora. Pertanto è essenziale la lezione Einaudiana secondo cui  è indispensabile l’esistenza di uno Stato non tentacolare, che si estenda fino ad un punto critico e non oltre. Al contempo è indispensabile rifuggire dalle pretese dello Stato sovrano, che Einaudi definiva immondo proprio perché chiuso al circolare della libertà. Infine rilanciare il ruolo delle libertà è particolarmente utile oggi con il governo di destra centro. Che non può essere contrastato con i criteri dello scontro tra bene e male proposti attualmente da una sinistra incredula di trovarsi all’opposizione da due anni (ma incapace di proporre un’alternativa). Il solo modo coerente di contrastare il governo di destra è non dimenticare che è nato come reazione  all’incapacità dei predecessori al potere negli anni precedenti e quindi incalzarlo sul fronte della libertà che è il distintivo della società aperta. Perché un tale distintivo la destra lo respinge con fermezza, essendo avvinta al praticare la nostalgia di un mondo tradizionale fatto di valori statici  e contrapposto alla sinistra di cui però ripete lo schema bloccato del bene contro il male. La destra arriva ad appoggiare la distorta libertà imperiale (incoerente con i suoi principi) ma non la libertà di scambio e di confronto tra idee e persone (caratteristica della società aperta liberale) che genera un cambiamento continuo  fonte di migliori condizioni materiali.  

E da un punto di vista della scienza economica? Ovviamente un punto di vista che discende dal principio delle libertà. Einaudi, da economista di vaglio, chiarì in modo definitivo che il liberismo non può prescindere dal liberalismo, dato che, quando vuol essere una teoria economica autonoma separata dal liberalismo, disattende  la libertà dei cittadini e diviene un progetto illiberale nei principi e nella pratica. Attenzione però. Dire no al liberismo non basta per  rientrare nel liberalismo economico. Nell’economia il  principale segnale di liberalismo è la diffusa  proprietà non pubblica, ed invece in Italia questa proprietà è scarsamente tutelata, specie in ambito intellettuale. Questo è un fattore che scoraggia gli investimenti, rallenta l’innovazione, e indebolisce la competitività delle imprese. Anche qui Einaudi va riscoperto.   

Come è possibile diffondere tra le giovani generazioni il messaggio di Luigi Einaudi Impegnandosi a far loro capire che è decisivo osservare di continuo il mondo fisico ed umano, sforzarsi di comprendere il suo modo di funzionare, divenire consapevoli della insostituibile importanza della propria individualità all’interno dell’enorme diversità dei soggetti vivi e materiali tra i quali si svolge la nostra vita in un perenne conflitto dialettico. Tenendo conto del parametro essenziale, noto a tutti ma trascurato quasi del tutto: vale a dire il tempo che passa incessante. Ciò significa che pure quella dei giovani è una categoria molto rilevante, eppure anch’essa non statica e quindi non mitizzabile nel grande caledeoscopio della vita rispetto alle altre. Certo non si diffonde il messaggio di Luigi Einaudi trasmettendo il permissivismo. 

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Einaudi ci ispira ancora

Una celebrazione suggestiva, quella dedicata a Luigi Einaudi in programma domenica prossima a Livorno dalle 9,30 dal Circolo Culturale Modigliani (sala Biblioteca Comunale Bottini dell’Olio, Piazza del Luogo Pio). L’opera di Einaudi, economista e Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955, è viva e da indicazioni preziose sul futuro. Atteggiamento che è la caratteristica essenziale del liberalismo. I i capisaldi dell’opera di Einaudi sono l’indicare gli strumenti cardine del vivere liberi. A cominciare dal buongoverno dello Stato per stimolare i cittadini all’indipendenza creativa individuale nell’ambito di regole senza privilegi amicali e dall’uguaglianza dei punti di partenza per consentire una gara equa tra cittadini diversi.

Un motto famoso di Einaudi, riscontrato in pieno nell’esperienza, è che “i due estremi monopolismo e collettivismo sono ambedue fatali alla libertà”. Infatti il metodo della libertà non usa le teorie ideologiche o religiose, che perseguono il dover essere. Il metodo liberale, in ogni occasione, combatte il conformismo ed è attento a ciò che l‘esprimersi umano produce materialmente in risposta alle sfide del vivere tra individui. Perché la libertà si esercita attraverso la lotta tra le idee e la discussione degli uni con gli altri, per capire ciò che è vivo e ciò che è morto delle tradizioni. Perciò Einaudi ha sempre sostenuto la necessità di uno Stato fino ad un punto critico ma al contempo ha sempre frustato la pretesa dello Stato sovrano, chiuso alla libertà. Non a per caso Einaudi ha dato precisi contributi alla costruzione dell’Europa, poi realizzatisi nei decenni.

Einaudi ha fornito al metodo liberale spunti preziosi e fondamentali tutt’oggi. Lo ha distinto a fondo, proprio lui economista di vaglio, da ogni confusione con il liberismo, che quando vuol essere una teoria economica autonoma separata dal liberalismo, disattende la libertà dei cittadini e diviene un progetto illiberale nei principi e nella pratica.

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Sull’articolo odierno sul Corriere (a Danilo Taino)

Caro Taino,

Mi consenta una riflessione sul Suo articolo di stamani. Trovo molto efficace la frase, che giudico centrale, “sono questi due conflitti i cui esiti saranno decisivi anche per il futuro delle nostre vite, per la democrazia, per le libere economie, per la coesistenza internazionale non dettata dalla forza dei muscoli”. 

Appunto per questo, condivido le sue considerazioni su Israele e sui suoi nemici in Medio Oriente e non solo (icastica la definizione dell’Onu quale palude dell’antisemitismo) proprio perché conseguenti alla frase centrale ( l’avversione ad Israele equivale alla profonda e radicalissima avversione allo svilupparsi della libertà individuale tra diversi, di cui Israele è ben presto arrivata ad essere protagonista perché legata ai fatti concreti delle libere relazioni , nonostante il suo nascere socialista). 

In base alla stessa frase, Le ripeto le mie forti perplessità – che Le ho espresso alcuni mesi fa e che oggi appaiono sempre più evidenti – sulla vicenda Ucraina Russia. In pillola, la Russia di Putin è sempre stata ed è un’autocrazia sotto ogni aspetto, l’Ucraina è una nazione che non da oggi aspira all’indipendenza dalla Russia. Allora stando così le cose, l’azione almeno decennale della Nato che ha soffiato sul fuoco degli indipendentisti ucraini è stata contraria allo spirito liberale della libertà di scambio ed ha adottando quello dell’illiberale (negli anni duemila) libertà imperiale, cosa che ha fornito motivazioni per l’invasione russa del ’22. Un simile comportamento ha continuato a far danni politici, sia ponendosi l’obiettivo del far entrare l’Ucraina nella Nato (a prescindere da ogni valutazione sui riflessi geopolitici) sia addirittura quello di spingere per farla entrare nella UE, senza seguire nè le procedure esistenti né soprattutto i criteri costitutivi dell’UE, che non è un tradizionale stato di potere ma si fonda sulla maturazione del libero rapporto dei suoi cittadini nel segno della libertà di scambio (e non risulta che ancora la realtà Ucraina corrisponda a questi parametri).

Trovo molto efficace anche la frase “hanno lasciato che i modi e i tempi dei conflitti voluti da Putin e dalla galassia dei filoiraniani del Medio Oriente fossero dettati da Mosca e da Teheran”. Ma per  un’altra ragione. Che Stati Uniti ed UE – al momento dominati non da politici di cultura liberale bensì da elites attente solo al gestire il loro ruolo lontano dai cittadini – si sono dimenticate di applicare i principi della libertà ritornando alle logiche tradizionali di potere degli Stati di vecchio stampo.

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Sui detrattori del sistema del voto di tutti i cittadini

Tutti questi signori stanno ritornando all’epoca pre empirista, in cui il fine essenziale era pensare all’eterno con l’obiettivo di avere il titolo per gestire il potere dell’oggi. Senza dubbio una propensione del genere fa parte dell’umano, solo che l’empirismo aveva attivato il nuovo sistema per superarla in larga parte ed ha riportato successo. Però il sistema empirico è faticoso, poiché richiede una manutenzione continua nell’aggiornarlo e nell’attuarlo. 

Così nell’ ultimo centinaio di anni nell’Occidente,  solo il settore scientifico è stato in sostanza capace  di mantenere una corretta applicazione del nuovo sistema  e non per caso i risultati sono stati e sono in continua crescita. Nel settore della vita ordinaria, invece, è progressivamente tornato a prevalere il seguire le antiche abitudini del conformismo che esalta gli assetti di potere esistenti nel quotidiano e perciò la notorietà personale invece della conoscenza. Tipici esponenti ne sono chi adotta la cultura religiosa in campo civile e chi comunque, sognando di far divenire perfetto il mondo vivente,  propone ogni giorno ideali antiindividualisti più  o meno legati al socialismo del sol dell’avvenire e pochissimo rispettosi della libertà civile. 

In tale clima, vige il pontificare sugli avvenimenti quotidiani solo mirando a misurarne la corrispondenza al supposto dover essere emergente dalle mode elitarie (atteggiamento gonfiato da mezzi di comunicazione impantanati nel fare sempre e solo spettacolo). E siccome i sistemi elettorali rientrano nella strumentazione inventata nel periodo che ha visto l’affermazione del sistema empirista puntando al conoscere di più affidandosi alle scelte dei cittadini individui (con risultati importanti), ne consegue che tali sistemi non rientrano nelle mode elitarie e perciò le elites, pur senza esporsi troppo, persistono nel far circolare l’illusione di poter prescindere dal sistema elettorale e di affidarsi invece solo agli esperti.  

Lo strumento sondaggi, che imperversano talvolta senza neppure essere stati fatti o comunque fatti secondo convenienza, serve appunto a soddisfare i gruppi degli esperti amici e pure riempire paginate dei mezzi di comunicazione , mostrando una propria capacità quasi divinatoria. Così è caduta in disuso la pratica tradizionale dello scovare una notizia e di verificarla. E il risultato del votare è sopportato a stento quando non rispetta le elites amiche.

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Circa un articolo odierno sul Corriere (a Sabino Cassese)

Egregio Professore,

Lei pone una domanda (“il diritto internazionale ha fallito la sua missione pacificatrice nel mondo?”) senza chiarire in partenza quale natura abbia il soggetto della frase. Di fatti, il diritto internazionale c’è come teoria mondialista illiberale che vuol ripetere i secolari rapporti di potere tra gli stati, e in tal caso la presunta missione pacificatrice è solo un paravento diplomatico per ammantare le effettive pratiche belliche. Viceversa,  in termini liberali il soggetto non esiste (ha mai visto il diritto internazionale votato dai cittadini?) ma allora non può avere missioni. 

Insomma, non è possibile eludere l’esperienza nel tempo, secondo cui la pace consegue alla crescita della libertà (non la precede) e la libertà lievita a poco a poco e con fatica solo attraverso la maturazione della consapevolezza di individui che convivono nella diversità confrontandosi in base ai risultati ottenuti.

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