Postfazione a “Un’esperienza istruttiva”

Per la pubblicazione in cartaceo de “Un’esperienza istruttiva” è stata redatta una postfazione di una ventina di pagine riportata si seguito

UN SEMESTRE DOPO ,    ANCORA CONFERME

1 – I due avvenimenti più di rilievo   verificatisi dopo l’edizione di “Un’esperienza istruttiva” del 15 gennaio scorso, mi inducono ad un ulteriore esame circa le conclusioni generali tratte nel Capitolo 9. I due avvenimenti sono la rielezione di Mattarella il 29 gennaio e la malattia dell’Occidente manifestatasi in termini inequivoci con la guerra in Ucraina, iniziata il 24 febbraio e tuttora in corso. Ambedue questi avvenimenti sono   conferme sostanziali delle mie valutazioni circa il liberalismo.

In estrema sintesi. Il liberalismo non è un libro sacro ma costituisce un’ineludibile anima evolutiva, fondata sul cittadino individuo e sullo stare ai fatti sperimentati. Di conseguenza il liberalismo è una componente necessaria per rendere aperta la convivenza ma l’applicarlo non è compatibile né con una concezione notabilare, né con una pratica elitista sovrapposta al cittadino. Ho scritto che il liberalismo è costruito per essere un metodo di osservazione dei fatti, di valutazione individuale di quanto queste osservazioni astraggono dal reale, di un confronto tra i cittadini prima su tali valutazioni e poi sui risultati delle iniziative pubbliche e private al passar del tempo. La struttura del liberalismo è il metodo politico meno distante da quelli che sono i meccanismi della vita umana. Specie sull’aspetto cardine, il puntare sull’individuo quale motore delle relazioni tra i diversi individui: in sostanza sullo scambio.

Inoltre, ho anche scritto che parlare dl declino dell’occidente è una contraddizione in termini. Di fatti, lo svilupparsi dell’occidente corrisponde alla millenaria maturazione un pò alla volta della consapevolezza del ruolo essenziale del metodo individuale nel conoscere di più e nel migliorare la convivenza tra diversi (dovuta al modellarsi sull’evolversi degli avvenimenti del vivere). Quindi la tesi del declino dell’occidente contraddice questa realtà evolutiva di cui l’occidente è il maggior rappresentante. A patto che lo stesso Occidente non pretenda di averne l’esclusiva e purché si impegni.

Ripercorro più da vicino cosa sono stati i due avvenimenti richiamati, per constatare che i problemi conseguono dal fatto che ancora una volta i principi liberali di fondo non sono stati adottati.

2 –   La vicenda della rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica dopo otto scrutini il 29 gennaio, ha messo in scena la misera figura delle due coalizioni parlamentari esistenti. Incapaci di fare una scelta innovativa (il centrodestra che ha saltabeccato senza progetto, il centro sinistra che non ha   mai presentato un candidato ufficiale) e soprattutto una scelta utile ad affrontare le questioni vere che sono sul tavolo. Sono state tetragone nel non corrispondere all’aspirazione quirinalizia di Draghi, solo perché avrebbe attivato nuovi equilibri. Perciò è stato surreale l’entusiasmo dell’aula durante il discorso di insediamento del Presidente. In 38 minuti, l’Assemblea dei Grandi Elettori ha applaudito 55 volte (una ogni 41,4 secondi se ogni applauso fosse durato un secondo, e non ci fossero state una ventina di ovazioni in piedi). Un clima da stadio, con spalti eccitatissimi che interrompono il discorso. Applausi surreali perché tributati ai comportamenti irresoluti tenuti fino ad allora da chi

applaudiva. Un’ovazione che in pratica ha concretizzato la politica del cavalcare le emozioni immediate portatrici di illusioni invece della concretezza realista atta a sciogliere i nodi del convivere.

Del resto lo stesso discorso del Presidente, nell’elencare le questioni più urgenti, è stato ottimista nel  presupporre che la sua elezione potesse risolvere lo stato di profonda incertezza politica e di tensioni. Il clima dominante è stata l’emotività e non l’attenzione ai problemi da affrontare e ai comportamenti delle forze politiche. Altrimenti sarebbe inspiegabile l’applauso   quando il Presidente ha indicato l’esigenza di quella tempestività delle decisioni in aula, da tempo insussistente. Se il ruolo cruciale del Parlamento nelle istituzioni è quello descritto impeccabilmente dal Presidente, allora non si può dimenticare che perfino nella sola cosa in cui vien difeso il Parlamento – evitare la compressione dei tempi parlamentari   per esaminare e valutare i provvedimenti – si cita una compressione colpevolmente accettata dai plaudenti (quindi non avrebbero dovuto applaudire ma reagire coerenti).

Per non parlare delle gravi responsabilità sul versante giustizia. Il discorso del Presidente ha segnalato che l’ordinamento giudiziario deve corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, e che è indispensabile far giungere con immediatezza a compimento le riforme annunciate. Ebbene, nonostante gli applausi, sono occorsi altri cinque mesi di dibattiti serrati e assai confusi per giungere al solo varo della riforma Cartabia, con fortissime divisioni tra gruppi.  Dunque la mole dei 55 applausi è un macigno sul discorso Presidenziale, che fin da subito ha gettato ombre sulla sua realizzazione.  Lo stesso sul tema dignità ben evocato dal Presidente – eccetto l’utopia di “azzerare” le morti sul lavoro – che corrisponde ad un’altra cultura civile, quella fondata sulla diversità individuale e sulla sua libertà.

L’evidente problema politico è la mancanza da oltre un quarto di secolo del dibattito sui progetti. A quell’epoca passò l’idea – poi cresciuta nonostante gli insuccessi – che la politica fossero gli scontri elettorali nazionali tra due coalizioni   frastagliate, senza un progetto univoco e dirette da un ristretto clan di segretari. L’alternarsi dei Governi di centro destra e di centro sinistra è stato sempre più disattento ai cittadini, fino a che nel 2018, una larga parte degli elettori si è ribellata e ha dato un’ampia maggioranza relativa a chi diceva basta. Nemmeno così in Parlamento è ripreso il dibattito sui progetti (complice il fuoco di sbarramento dei   mezzi di comunicazione restauratori) e dopo due governi diversi imperniati sul M5S e le autonome dimissioni di Conte (impegolatosi in manovre tattiche cui non era tenuto avendo avuto la fiducia in settimana), si è   arrivati, per volere del Mattarella I, al Governo Draghi sostenuto da un’ampia maggioranza ma – a parte l’affrontare l‘emergenza guidati da un tecnico molto esperto – non da una altrettanto   condivisa   prospettiva politica.

Lo ha confermato l’incapacità dei Grandi Elettori di accordarsi su un nuovo Presidente della Repubblica (non perché il Mattarella I non abbia dato buona prova nel suo ruolo ,   ma perché il settennato secco è la prospettiva fisiologica del ruolo istituzionale, come lo stesso Mattarella ha detto più volte). Il fatto di non essere riusciti ad innovare la dice molto lunga. E gli applausi scroscianti all’insediamento, la dicono lunghissima. I gruppi partitici sono oggi incapaci di innovare.  Nonostante la capacità di innovare sia la chiave per realizzare le indicazioni del discorso del Mattarella II (denominate, non a caso, la qualità della nostra democrazia).

Quasi tutti i grandi elettori cattolici, fin dall’inizio, non volendo cambiare, hanno usato i voti anonimi al fine di creare le condizioni per richiamare Mattarella, cioè un atto di non cambiamento (dettagliato apertamente in un’intervista di Reset e  nel racconto dell’Espresso, a sostegno di un risultato foriero di stabilità).  Sorvolando sul fatto che la stabilità da sola è garanzia di immobilismo.

Sono mancate la volontà di cambiare davvero e il saperlo fare. Che in realtà non rientrano neanche nel dibattito mediatico, nel quale prevale la promessa utopica e la sceneggiata TV. Mancando il dibattito, manca un’offerta adeguata ai problemi italiani. In generale, gli addetti ai lavori e i mezzi di comunicazione si sono impegnati su altro. Chi lavorava al partito del PNRR come gruppo elitario di potere, senza curare la mentalità indispensabile per indurre la crescita. Il PD sognava di riacquisire il rilievo perduto assegnandosi una centralità inesistente. FI propagandava a pappagallo il filone PPE senza cogliere le differenze con esso. Salvini si vantava della scelta di non cambiare il Presidente e tentava di logorare Draghi pensando alla destra di Orban e dei polacchi. Conte, usando i voti del ’18, galleggiava senza progetto visibile. I cespugli   intermedi ricercavano rendite, senza pensare ad avere una linea.   FdI concepiva l’opposizione esibendo un bagaglio conservatore opposto alla liberaldemocrazia.

Nessuno si è impegnato a riprendere il dibattito concreto sui fatti e sui progetti precisi, per farne il fulcro della politica di rilancio dell’attività produttiva e delle riforme civili imperniate sul cittadino libero. Eppure per evitare il rischio segnalato nel discorso del Presidente – “i regimi autoritari o autocratici appaiano, ingannevolmente, più efficienti di quelli democratici “ – , era indispensabile un dibattito efficace per scegliere e per   mantenere il più possibile viva l’uguaglianza nei diritti del cittadino così da poter utilizzare al massimo le diverse iniziative di ciascuno di conoscere e di innovare attivate dalla sua libertà. Le promesse teatrali e gli applausi non fanno crescere l’Italia. Specie quando le scadenze europee del PNRR non consentono distrazioni. La vicenda della rielezione di Mattarella è stata insomma un’ulteriore conferma di come sia indispensabile darsi da fare per colmare il buco di liberalismo che esiste nel nostro paese e che, unico nelle democrazie occidentali, è divenuto una voragine. Il dato sperimentale conferma che, eludendo il contributo dei liberali, non si governa un paese fondandosi sulla centralità del cittadino individuo. Mentre tale centralità è il sistema di gran lunga più efficace trovato fino ad oggi per farlo.

3 –   Il secondo dei due avvenimenti di rilievo dopo il 15 gennaio, è stato l’acuirsi della malattia dell’occidente. Appunto non un fatto nuovo, che però ha assunto dimensioni concettuali e diffusione endemica tali da far venire a galla un’incoerenza strutturale nel modo di intendere la libertà propugnata dalle istituzioni dell’occidente e il suo evolversi nel tempo.

A fine febbraio   marzo, la guerra in Ucraina ha indotto molte grandi firme dei big della stampa a scoprire che essa stava assumendo i caratteri di uno scontro tra civiltà. Che  loro descrivevano in modo singolare, mettendo, da un lato, la società intesa come meccanismo per garantire la libertà degli individui di condurre la vita che credono e dall’altro   un’idea di nazione in cui l’unità spirituale di un popolo   permea tutte le manifestazioni, e dunque anche la vita degli individui. Solo che, facendo tale descrizione,  le grandi firme attribuivano la forza attrattiva dell’idea di nazione totalizzante alla nostalgia di un mondo fondato sulla comunità e su una nazione fatta di sangue e suolo. E si preoccupavano solo della nostalgia.

Invece non coglievano la questione essenziale. Stare dalla parte della libertà degli individui non equivale al battersi contro la nostalgia e prendere le distanze dalla nazione totalizzante. In più, siccome è indiscutibile  che la Russia abbia una struttura non democratica e che Putin è modellato sul KGB, insistere su questo tasto serve solo a spingere verso il ritorno al clima della guerra fredda. Che in Occidente è un clima autolesionista, in quanto  inadatto a promuovere gli scambi e i confronti, i soli presupposti del rafforzarsi della libertà civile imperniata sul cittadino individuo.

Addirittura le grandi firme hanno argomentato che Putin   intende riprendere la marcia interrotta dal disfacimento russo con ambizioni maggiori della potenza di cui dispone, e che non si rende conto di perdere la battaglia dell’immagine e della reputazione, perché non c’è più l’ideale mondiale del comunismo e perché il capo nemico è il leader più televisivo che guerra abbia mai visto. Perciò, scrivono questi pseudo profeti, Putin non potrà mai vincere la sua sfida, non riuscirà mai a convincere gli ucraini che sono russi. E presi dalla loro certezza, hanno concluso che “a noi occidentali spetta il compito di aiutare la democrazia di Kiev a resistere, ma anche di resistere per parte nostra alla tentazione dello scontro di civiltà. Dobbiamo fermare l’espansionismo della Russia di sempre, per poter convivere in pace un giorno nella casa comune del continente europeo”. Insomma, eliminata la diversità della Russia, secondo loro la libertà porterà alla pace.

Un ragionamento del genere ha una contraddizione politica profonda. E’ corretto assumere che l’Occidente non debba farsi tentare dallo scontro di civiltà, siccome l’essenza dell’Occidente è il liberalismo, che mediante la libertà opera dal ‘600 per affrontare la convivenza tra cittadini diversi.  Da allora l’essenza (non l’interezza) della cultura occidentale è il liberalismo, che pone al primo posto la libertà tra i cittadini. Ma fatta tale assunzione,  non è minimamente consentito fingere di non accorgersi  di quanto è davvero avvenuto dal 2014 in poi. Prima i fautori dell’indipendenza ucraina sono stati parecchio sollecitati dall’occidente e poi l’Ucraina, dopo aver firmato il trattato Minsk2 con Russia, Germania e Francia nel febbraio 2015, non ha fino ad oggi più adempiuto a quanto ivi stabilito, vale a dire introdurre nella Costituzione ucraina il riconoscimento dell’autonomia rafforzata al Donbass , un punto che è sempre stato decisivo per la Russia.

Si finge di non accorgersi che tale inadempimento ha dato a Putin la motivazione per l’invasione (inibendo il richiamo al rispetto degli stati sovrani). E inoltre gli ampi e persistenti aiuti dell’Occidente all’Ucraina (che confondono gli aspetti della solidarietà umana con le pratiche finalità militari) hanno espanso ulteriormente il carattere della guerra trasformandola vieppiù in scontro di civiltà. In quanto fautori dell’Occidente, non possiamo dare a Putin la colpa di incarnare la Russia di sempre. E non possiamo dimenticare il comportamento della Nato negli ultimi anni: perché le truppe USA in Europa sono divenute sempre meno, ma la presenza e le esercitazioni militari della Nato sono aumentate parecchio, ad esempio tre grandi esercitazioni solo nel 2021 in Ucraina. Con questi comportamenti   l’Occidente ha effettivamente incrementato l’arrivo allo scontro di civiltà. Di più ha spinto ad una vera e propria guerra fredda con le sanzioni economiche imposte da Biden quale compromesso con i suoi ambienti oltranzisti (sanzioni che ha definite l’alternativa alla terza guerra mondiale). Tutto ciò costituisce una colossale contraddizione dell’Occidente, che,   incrementando lo scontro di civiltà, pratica l’opposto di quanto richiede la scelta di sostenere la libertà.

Oltre a questo tema, esiste poi quello più specifico derivante dal come si configura l’economia occidentale. Un sistema complesso, in cui i vari elementi non interagiscono in modo lineare e così le loro interazioni sono troppe per fare previsioni del tutto affidabili. Peraltro una cosa è certa. Oggi, sarebbe necessario liberare la nostra economia dai troppi vincoli, per consentire soluzioni innovative, indispensabili per arginare i contraccolpi della guerra, tipo l’aumento delle spese militari in aggiunta a quelle sanitarie. Ma questo è un auspicio teorico liberista, come sempre avulso dalla concretezza politica della libertà nelle relazioni tra i cittadini. La realtà odierna è una condizione internazionale che si va dividendo in aree chiuse. Una divisione innescata dal comportamento non necessario dell’Occidente (appunto perché la Russia è quella di sempre), che si è drogato nella illusione di identificarsi con il mondo intero e che dissennato, nel sogno di un dominio assoluto non corrispondente alla realtà dei rapporti internazionali, taglia proprio quegli scambi che costituiscono il veicolo principale della libertà e del benessere.

I liberali non devono farsi commuovere dalla pulsione di larga parte degli ucraini per irrobustire la propria autonomia istituzionale dalla Russia. Per l’essenziale motivo che i liberali perseguono la libertà ma non la impongono (mentre incoraggiare attivamente quella pulsione per anni e armarla pesantemente, equivale ad imporla tramite una guerra per procura). Inoltre, gli ucraini hanno dimostrato (quanto meno) dal 2015 di non preoccuparsi del rafforzare la propria libertà , rispettando i patti sottoscritti, e tentato piuttosto di coinvolgere l’Occidente in un confronto armato. La vice premier ucraina Vereshschuk ha teorizzato una simile strategia alla TV italiana con chiarezza e con insistenza. Nonostante ciò, l’occidente ha continuato in questi cinque mesi a tenere comportamenti adatti al promuovere uno spettacolo ma non a svolgere una politica assennata basata sulla realtà degli interessi in gioco nel determinare il realizzarsi delle relazioni civili del mondo. L’Occidente aveva il sogno di eliminare Putin e trasformare la Russia in una democrazia liberale. Ma sognava dimenticando che l’esperienza storica mostra che è solo attraverso il confronto critico che l’idea di libertà e di diversità propugnata dai liberali matura nella convivenza.

Con questa ossessione, l’Occidente ha trasformato i giusti aiuti agli ucraini (che rientrano nei gesti umanitari) in forniture di materiali militari e con ciò ha scavato solchi sempre più profondi nei rapporti con la Russia, favorito il protrarsi del conflitto e dunque la riduzione degli scambi. In più ha agevolato l’attitudine scenica dell’attore Zelensky alle apparizioni da remoto, in cui sostiene di continuo la tesi della guerra santa e perfino accusato lo stesso Occidente di non fare abbastanza. In realtà è chiaro che gli USA non intendono farsi coinvolgere in eventuali conflitti inviando truppe sul terreno, e ciò costituisce un ulteriore contraddizione intrinseca dell’Occidente.

Nel complesso, il teorizzare la libertà si è accompagnato   al tradirne i meccanismi. Che implicano modi coerenti nel comportarsi all’interno dell’Occidente, iniziando dall’accettare e dal rispettare il principio di diversità indissolubilmente connesso a quello di libertà individuale (cosa che inibisce la pretesa di concepire la libertà come un marchio imperiale da imporre solitario). In più, implicano coerenza nei rapporti esterni. Cosa che non succede quando si favoleggia dell’obbligo di spingere una lotta di   resistenza, al di fuori di una situazione di guerra in corso come avvenuto in altre epoche ed in altri paesi, mentre al contempo, mediante il sostegno  nei decenni  vicini  al persistere delle pulsioni ucraine contro la Russia nonché all’aizzare l’opinione pubblica contro Putin e la Russia,   si gonfia ad ogni costo la resistenza ucraina, al prezzo di rendere più vicina la minaccia della terza guerra mondiale.

Per l’Occidente, comportarsi in termini di piena coerenza   con la libertà e  la connessa diversità, è l’ineludibile carattere distintivo. Non per purezza formale di impostazione, ma perché libertà e diversità sono indispensabili per mettere in moto il dispiegarsi del metodo individuale dei cittadini che è il motore dell’intero sistema. Se tale metodo non si attiva, il sistema entra in fibrillazione. Il liberalismo innesca un equilibrio   fluido tra i diversi individui (ciascuno con il rispettivo spirito critico) e le relazioni intercorrenti nella convivenza di tutti loro. Il concetto di equilibrio liberale va al di là della cultura religiosa, la quale ha sempre utilizzato altri due concetti, particolarismo e universalismo, oltre al concetto di eterno. Nel lessico liberale il concetto individuo sostituisce quello di particolare, il concetto di convivenza di tutti gli individui nel tempo sostituisce comunità a livello locale e a livello globale universalismo (che è un rifiuto fisiologico della diversità), il concetto di tempo fisico sostituisce eterno. Con questo lessico – che equivale ad un ribaltamento concettuale –  i liberali si propongono di far sì che il metodo dello spirito critico individuale dilaghi nel tempo ad ogni livello , adoperando lo strumento della libertà nella diversità, che assicura, più che una soluzione unica, una prospettiva poliedrica. Ovviamente, salvo che nel frattempo l’osservazione del mondo   introduca   risultati sperimentali innovativi.

Un simile mutamento di paradigma è indispensabile nella pratica, dato che innesca sotto due profili il materiale funzionamento della libertà e della diversità. Il primo profilo riguarda il medesimo Occidente, perché è la condizione irrinunciabile per attivare la libertà e la diversità nella convivenza tra i cittadini, su scala locale e su scala generale. Il secondo profilo concerne la credibilità che la società occidentale è in grado di far valere presso il blocco delle società nostalgico autocratiche e quindi di corroderle e di travolgerle come già è avvenuto negli anni ottanta. Una simile credibilità è essenziale, poiché – qualora le società liberaldemocratiche siano pervase dal morbo di sacrificare la ricerca quotidiana di libertà al voler somigliare alle tradizionali istituzioni di potere disattente ai cittadini e al loro ruolo – esse sono incapaci di funzionare come dovrebbero (appunto all’insegna della libertà sempre in moto) e al contempo, dato che mantengono  tracce di quella libertà, non possono avere nell’esercizio del  potere una  compattezza  tale da confrontarsi con le società autocratiche. Per  questo,   oggi l’Occidente malato viene perfino sbeffeggiato, anche se si illude di essere titolare della Pax Americana.

Lo fa l’Enciclopedia Russa utilizzando per definire l’Occidente il termine il “miliardo d’oro”, una metafora per esprimere la differenza nel tenore di vita tra la popolazione dei paesi altamente sviluppati e il resto del mondo.  Una metafora falsa nel suo strumentalismo, perché prende quale parametro un fatto reale (il tenore di vita) recidendone l’origine (la superiore conoscenza sviluppata dalla libertà dei cittadini). Le lontane radici della metafora stanno nel malthusianesimo (le risorse sono limitate e la popolazione eccessiva). Una teoria superata dalla libera conoscenza che da allora ha aumentato le risorse più della popolazione, ma che trova largo consenso in un’ampia maggioranza di paesi asiatici africani latinoamericani, che di fatti non aderiscono alle sanzioni occidentali contro la Russia (le sanzioni sono state adottate   dal 16% dei Paesi, e gli atri hanno oltre l‘85% della popolazione e quasi metà del prodotto. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno deciso di costruire una moneta di riserva alternativa al dollaro). Del  resto,   le classi dirigenti di quei paesi sono educate in Occidente dove s’insegna (non diversamente che nei paesi dei totalitarismi) che l’unica civiltà aggressiva è l’Occidente.  E’ una distorta impostazione didattica, frutto della malattia Occidentale di equiparare la libertà ad un marchio imperiale, senza riflettere che la libertà non può esserlo e attuando il ritorno agli stati del passato. Il peggio è che una mentalità siffatta non ha la capacità di rispondere agli scontri reali con il resto del mondo, poiché rinuncia in partenza , drogata dalla presunzine di avere un destino certo di superiorità, a praticare in pieno  la dinamica della libertà nei suoi rapporti di convivenza. E’ tale rinuncia dell’Occidente – non il tenore di vita raggiunto – che consente ai paesi totalitari di sbeffeggiare un Occidente che non applica in pieno i meccanismi della libertà propugnata e finisce per non essere né carne né pesce.

Questa malattia dell’Occidente ha contagiato l’UE, la quale negli anni, dopo Maastricht, ha messo tra parentesi un pò alla volta lo spirito innovativo dei Trattati di Roma, dedicandosi al costruire istituzioni tradizionali non abbastanza attente al rapporto con i cittadini e troppo sensibili ai dirigenti di Bruxelles. Dopo la sbornia dell’austerity, in occasione della pandemia ha ricuperato un po’ dello spirito dell’istituzione modellata sulle esigenze dei suoi cittadini, ma non è ancora riuscita a darsi un progetto per ampliare l’UE secondo quello spirito. E’ rimasta invischiata nella manovra voluta dalla NATO in Ucraina (nonostante alcuni anni fa avesse condannato la corruzione dominante in quel paese) e ad oggi non solo non è in grado di affrontare due settori essenziali,  l’esercito e il sistema fiscale comuni, ma anche di dotarsi di una strategia efficace per mantenere l’autonomia dalla NATO ed esercitare la propria influenza  nell’intero Mediterraneo, in modo da fronteggiare le forti pressioni della Turchia e dell’Iran oltre a quelle russe e cinesi.

Ancor di più pervasivo è stato il contagio della malattia dell’Occidente nella stampa italiana. Nella seconda metà di maggio, la posizione di tutti i mezzi di comunicazione in Italia – riassumibile in un articolo del Direttore di Repubblica Molinari – era enfatica: “chi non crede nella democrazia liberale sta con Putin mentre chi la vuole difendere, migliorare e magari rigenerare gli si oppone con fermezza”. Una scelta di campo così aprioristica e acritica, presupponeva che l’Italia dovesse affrontare interessi e problemi coincidenti con quelle USA e della NATO. Era una copertura integrale all’azione del Ministero degli Esteri, che, negli stessi giorni, da un lato inviava armi all’Ucraina , dall’altro aveva elaborato una proposta formale di pace, in termini del tutto irrealistici (dando per scontata l’impostazione USA NATO per cui la guerra sarebbe dipesa solo dalle mire espansionistiche di Putin nel Donbass e non anche dall’inadempimento del trattato Minsk2, chiedendo l’immediato cessate il fuoco senza la sospensione delle sanzioni economiche contro la Russia, ed inoltre l’immediato ingresso dell’Ucraina nell’UE).   In sostanza una proposta funzionale all’idea di un occidente trionfante e all’impostazione galvanizzata di USA e NATO (che per di più ha affidato  la libertà occidentale  alla forza delle armi  più che alla sua forza intrinseca fondata sullo spirito critico e sugli scambi tra cittadini), senza tener conto degli interessi della Russia, o meglio considerandoli già sconfitti. Non a caso proposta neppure presa in esame a Mosca.

Viceversa, già tre giorni prima un editoriale redazionale del New York Times, importantissimo quotidiano sostenitore dell’Amministrazione Biden, aveva pubblicato un pezzo argomentato che si conclude: “mentre la guerra continua, Biden dovrebbe anche chiarire al presidente Zelensky e al suo popolo che c’è un limite a quanto gli Stati Uniti e la NATO si spingeranno per affrontare la Russia, e limiti alle armi, al denaro e al sostegno politico che può radunare. È imperativo che le decisioni del governo ucraino si basino su una valutazione realistica dei suoi mezzi e di quanta più distruzione può sostenere l’Ucraina. Confrontarsi con questa realtà può essere doloroso, ma non è acquiescente. Questo è ciò che i governi sono tenuti a fare, non inseguire una “vittoria” illusoria”. Il NYT non ha dimenticato che la volontà di autonomia Ucraina è stata resa possibile proprio dai molto consistenti aiuti dell’Occidente. E prova che alla fine l’Occidente profondo tien conto della realtà e riflette sul concedere all’Ucraina aiuti illimitati, che attribuirebbero al dare alla caratteristica libertà, un marchio imperiale che con la libertà è incompatibile.  E’ perciò visibile che il quotidiano USA ha l’autonomia per fare il bagno di realtà e porsi problemi (atti inseparabili dal praticare la libertà). Quelli italiani no. E i due mesi successivi, sono proseguiti sulla medesima riga. Se non si è liberali, almeno si dovrebbe tener conto delle indicazioni del metodo liberale. Lo dice l’esperienza. Perfino il Papa – certo non un esponente politico liberale – ha definito la politica occidentale un “punzecchiare la Russia” controproducente.

4 –   Nel clima di questi mesi (ancora una volta non liberale) che aleggiava attorno ai due avvenimenti trattati fin qui,  si è per di più affiancata in modo crescente (e visibile) la tendenza del complesso della classe dirigente elitaria italiana a tentare di ricuperare quel suo controllo delle scelte pubbliche, messo in forte difficoltà dalle elezioni del 2018.

Si è perfino irrobustito l’eclatante accanimento con cui il blocco costituito dai gangli istituzionali   e dai mezzi di informazione, ha reagito fino ad oggi al risultato delle elezioni ‘18, che, reso primo partito il M5S, ha se non rimosso assai indebolito i gruppi del potere consociativo. I quotidiani attacchi ai grillini sono andati molto oltre le loro carenze obiettive   (mancanza di un progetto strutturato, di una cultura politica adeguata, di personalità con esperienza). L’interesse del blocco è sempre stato il ritorno all’epoca in cui i cittadini erano lodati e   trattati da sudditi.

Non si è voluto capire che la protesta populista nasce perché  i cittadini non  accettano un modo di governare la convivenza incapace di portare alle condizioni di vita implicite nella cultura libera.  E’ il frutto dell’aver distorto il cardine dell’Occidente, che è la libertà dell’affidarsi alle scelte di tutti i cittadini sui fatti. In questa primavera, insieme al manifestarsi italiano della malattia dell’Occidente, si è irrobustito il palesarsi di un tentativo di modifica del   rapporto tra   governo e parlamento, con il dare al primo una maggiore autonomia rispetto al secondo.  Tale problematica ha iniziato ad emergere sul tema dell’invio delle armi all’Ucraina (un tema non strettamente economico su cui Draghi non è attrezzato, né per esperienza né per formazione).  Dopo che i primi di marzo le Camere hanno votato un documento al riguardo, nelle settimane successive il M5S – ritenendo  tale documento una copertura non sempre valida, al passare del tempo e al mutare delle condizioni sul campo, vista la reiterata intenzione italiana di lavorare al raggiungimento della pace – ha richiesto reiteratamente che l’invio delle armi all’Ucraina   fosse ogni volta sbloccato da un voto del parlamento. Palazzo Chigi ha respinto la richiesta del gruppo più consistente della maggioranza, e ha diffuso il principio che la Presidenza del Consiglio non va   commissariata dal Parlamento. Un principio che è una tipica tesi della cultura elitaria, neppure coerente con il quadro costituzionale.

Nel medesimo periodo, Draghi si è appiattito sempre più sulla linea occidentale in Ucraina. Emblematico lo schierare l’Italia sul sì alle condizioni di Erdogan per  ampliare la NATO, scordando di aver di persona qualificato  Erdogan  un dittatore che perseguita i curdi e opprime gli oppositori. E in tema economia, Draghi  ha sottovalutato le pesanti conseguenze in Italia delle sanzioni contro la Russia, non ha colto la contraddizione tra inviare le armi all’Ucraina e il sostenere l’economia italiana per i bisogni dei cittadini, quasi fosse possibile far convivere pace e guerra.

Inoltre, il blocco elitario restauratore ha compiuto manovre d’aula e mosse per autoperpetuarsi in un governo preservato dal confronto politico. Ha pilotato nel M5S  un’ampia scissione filo  governo e  ha diffuso la notizia per cui il Governatore della Banca d’Italia (in scadenza a fine ottobre ‘23) rassegnerebbe a breve le dimissioni (smentite dall’interessato), e questo perché le dimissioni permetterebbero un successore “amico” prima delle elezioni . E come ultima carta, il blocco elitario restauratore ha  lanciato la campagna con l’annuncio che alle elezioni del ’23 il PD sarebbe arrivato al 30% (aumento di metà),  un annuncio funzionale alla speranza di farne il fulcro di una più ampia coalizione che mettesse al riparo il tradizionale potere del blocco elitario.

Un simile impegno non sulla soluzione sperimentale alle questioni reali della vita bensì sugli interessi dei gruppi elitari, sfugge sempre meno ai cittadini. Ed alimenta il populismo. In più il blocco elitario, almeno a partire da maggio, ha trascurato la discrasia montante tra queste sue posizioni e quelle della destra tradizionale circa il tema dei cinque referendum abrogativi sulla giustizia richiesti da molte regioni a maggioranza di centro destra. Il blocco non è intervenuto apertamente ma ha privilegiato  gli stretti rapporti con gli ambienti fautori di una giustizia affidata all’esercizio corporativo.

Ha supposto di poter vincere nel voto referendario (cioè far prevalere il NO)  limitandosi,  sui mezzi di comunicazione, a non sostenere la linea del centro destra pro quesiti.  Una linea siffatta è stata messa in crisi da due fatti. Almeno un terzo del PD si è impegnato nell’appoggio a diversi quesiti referendari. In più , a seguito dell’appello di Critica Liberale, il mondo  liberale (Marzo, Morelli, Paganini, Bozzi G.), insieme a quello dei social azionisti, ha dato vita al Comitato Il NO mediante il NON, che ha lanciato la tesi del non votare nei cinque referendum. L’argomento è stato che, nel caso dell’art.75, il non voto esprime in termini netti il rifiuto di usare il referendum per abrogare le norme indicate nei quesiti, dal momento che il tema giustizia è un compito complesso che spetta al parlamento e non alla democrazia diretta. Il non voto esprime la volontà di aver la certezza che i quesiti proposti vengano bocciati, nella consapevolezza che votare NO e basta, aiuta a vincere il SI’ . I 5 quesiti referendari hanno avuto un flop clamoroso (solo il 20% dei voti) e anche nei comuni ove si tenevano le amministrative lo stesso giorno, il voto nei 5 quesiti è stato sotto il 50% . Ciò ha comprovato come la spinta del Comitato il NO mediante il NON nei dibattiti televisivi e radiofonici pubblici e privati, nazionali e locali, attestandosi sull’otto per cento dei votanti alle amministrative, abbia contribuito in modo decisivo al mancato quorum.

La riuscita dell’azione liberale nella vicenda referendaria, ha innescato anche conseguenze d’altro genere sui rapporti politici generali. Di fatti, i partiti del centro destra hanno iniziato a rendersi conto che, oltre all’opposizione prevedibile del PD , del M5S e della variegata sinistra, non avrebbero potuto aspettarsi condiscendenza neppure dal blocco elitario, per natura radicato nei rapporti con gli ambienti degli statalisti, con i consociativi, con le corporazioni pubbliche. Così, nelle ultime settimane di giugno e le prime di luglio, quando è giunto all’apice lo scontro con il M5S – dalla vicenda della fornitura di armi all’Ucraina , alle modalità di gestire la questione degli aiuti sociali (iniziando dal salario minimo e dal reddito di cittadinanza) nel quadro del tentativo già descritto di marginalizzare lo stesso M5S e di riprendere il controllo sulla direzione del governo descritto più sopra – il centro destra felpatamente, ma con decisione crescente, ha iniziato a sganciarsi dall’appoggio al governo.

Lo stesso Presidente del Consiglio ha percepito che la sua ampia maggioranza si era sfilacciata (il M5S già non votava più la fiducia) e ha manifestato la propensione al ritiro, seguita poi da vere e proprie dimissioni, inizialmente respinte dal Presidente della Repubblica. In quei frangenti, quasi all’improvviso, il blocco elitario ha compreso che la situazione andava precipitando e , proseguendo nella tattica adottata nelle ultime settimane di creare nel paese un’immagine falsata dei fatti, ha utilizzato il legame con i mezzi di comunicazione (per lo più privi di professionalità) per lanciare una campagna martellante di appelli a Draghi perché restasse al suo posto e salvasse l’Italia (quasi che la visibile ripresa del paese fosse dovuta solo alla professionalità economica di Draghi e non anche ai fondi avuti dall’UE con il PNRR durante il Conte2 e poi alla reazione degli italiani). Ciò nella convinzione che Lega e Forza Italia non avrebbero resistito al richiamo degli appelli, all’insistita evocazione della triplice emergenza sanitaria, bellica , economica,  e avrebbero confermato l’appoggio alla macchina dello Stato messa in forse da un comunque eccessivo rifarsi alle scelte dei cittadini. Però il blocco elitario ha esagerato e ha voluto perfino convincere il Presidente del Consiglio ad affermare, nella replica al Senato, che lui poneva la fiducia perché glielo chiedevano gli Italiani. E’ indubbio che tale frase fuoriesce dalla logica della democrazia rappresentativa.

La democrazia rappresentativa   si affida alle scelte parlamentari e non alle manovre costruite a tavolino per privilegiare gli interessi di chi è in grado di muovere le leve della propaganda per ingabbiare i cittadini. Il centro destra, già scosso da quanto avvenuto con i quesiti referendari, ha concluso che, continuando a votare la fiducia, i mesi fino alla scadenza elettorale naturale della primavera 2023 sarebbero stati un continuo manifestarsi dell’elitarismo senza freni. E ha deciso di non votare la fiducia. Il Presidente del Consiglio ha quindi ribadito le dimissioni e Mattarella ha sciolto le Camere il 21 luglio, convocando le politiche per il 25 settembre 2022. Il blocco elitario si è per qualche giorno scatenato sui mezzi di comunicazione contro il centro destra colpevole di  aver aiutato il M5S, mettendo così a nudo l’assurda pretesa delle classi dirigenti di essere le sole capaci di dettare la linea per governare i cittadini. Poi è rifluito su una posizione tradizionale ed ha iniziato a battere la grancassa contro la possibilità di governare del centro destra (i sondaggi sono unanimi nel darlo sopra di molto, intorno al 47% di cui FDL il 23%) , e ad invocare l’unione degli antifascisti contro il pericolo nero (nonostante sia una forzatura storica) . Continuando a non precisare con quale programma di governo (perché basta che l’elite sia al governo).

Nell’ultima decina di giorni di luglio si è delineata la campagna elettorale che sarà.  Rivolta ad un mondo sorpassato, quello degli elettori sudditi da imbonire, come sempre. Si enunciano promesse mirabolanti senza dettagliare come realizzarle, convinti che l’argomento siano i sogni e non misurarsi sulla realtà concreta. I sondaggi unanimi , oltre al CDX, danno  il PD sul 22%, il M5S sul 10-11%, Sinistra Verdi sul 2-3%, Di Maio 1%, IV di Renzi sul 2,5% , +Europa Calenda sul 2%, infine i piccolissimi. Il PD si comporta come fosse restato  il custode della intangibilità dello Stato e si pone l’obiettivo di battere il Cdx (obiettivo impossibile con il rifiutare il M5S) o almeno di impedire l’autosufficienza numerica degli eletti del Cdx  al Senato (cosa assai ardua con il sistema elettorale vigente). Chi più chi meno, tutti citano il proprio essere liberali, mentre è di tutta evidenza che una formazione liberale non sarà  in gara il 25 settembre. Ci sono voci circa il possibile formarsi di un gruppo di centro, che, a parte la terminologia obsoleta (siccome gli estremismi non hanno più un’esistenza di rilievo), non ha politicamente niente a che vedere con il liberalismo, specie per la prassi di protagonismo esasperato, per l’assenza di una visione improntata alla libertà individuale  e per la mancanza di concretezza operativa all’insegna del dinamismo critico.

5 – Salta all’occhio che nei tre avvenimenti trattati qui dopo il mio libro uscito il 15 gennaio – l’elezione del Presidente della Repubblica, il dilagare in Italia della malattia dell’Occidente, l’alzare la cresta del blocco elitario ­– manca una qualsiasi azione politica percepibile di tipo liberale, misurata sull’attenzione prioritaria al cittadino. Cioè, il medesimo problema che costituisce il nodo  politico del nono capitolo del mio libro.

Gli avvenimenti confermano ogni volta che il liberalismo è davvero indispensabile nell’Italia di oggi, perché persegue la libertà – fattore determinante ­nel rapporto tra i cittadini diversi e quindi nella convivenza effettiva – aderendo alla sua natura aperta nelle relazioni e rispettosa dei fatti. La convivenza non riesce, quasi per nulla, a funzionare aperta e nel rispetto dei fatti, se non sussiste una formazione delle libertà, che si fondi sulla libertà individuale, si comporti di conseguenza e faccia da catalizzatore nella società. Altrimenti, il liberalismo, anche se dichiarato, si riduce ad essere un aggettivo di un’altra concezione politica e rientra nella vecchia logica dei partiti più o meno di potere. Una logica che, oltre a non essere alla portata del liberalismo, ne contraddice la fisiologia politico culturale.

Il nocciolo della questione sta nel divenire consapevoli che  l’impegno politico del liberalismo è una categoria d’altro genere rispetto alle solite dottrine per governare. Come ho già fatto cenno, per il liberalismo non è più l’epoca in cui i cittadini sono sudditi da guidare. Per cui a chi pratica le idee politiche liberali, non serve un partito che sia una falange di supporto quantitativo a quelle idee per sconfiggere le falangi nemiche (vale a dire non serve il solito partito, che ingessa l’opinione critica del cittadino in una struttura etero diretta, modello Scalfari, così  riproponendo la logica dell’istituzione di potere) e tanto meno una nostalgia del passato.  Serve un tipo diverso di raccordo tra i cittadini che praticano il metodo liberale: una   formazione delle libertà, che collega chi partecipa alla convivenza nel segno della propria autonomia critica e intende usare tale accordo per  impegnarsi affinché anche  altri diversi  cittadini possano fare lo stesso e  prevalga tale criterio.

Una formazione siffatta prima di tutto è necessariamente legata ai fatti concreti del mondo invece che alle sue interpretazioni mitiche ed illusorie. Perciò non segue la strada delle promesse più o meno roboanti, bensì quella delle proposte volte a risolvere il problema sul tappeto. Ad esempio, l’approvvigionamento dell’energia non sarà una pratica di retrovia e quasi fastidiosa da lasciare agli addetti, ma la questione centrale e preliminare della politica pubblica, visto che non è possibile vivere senza disporre di energia sufficiente (la sola energia umana prodotta sta nel dare la vita, seppur destinata ad avere un tempo limitato). Oltre ad assicurarsi una fornitura adeguata, e ragionevolmente non utilizzabile per ricatti, di materie energetiche di cui il nostro territorio non dispone, lo Stato si impegnerà a fondo in ogni settore che possa fornire energia, cominciando da quello idrico, dal geotermico, dall’eolico, dal solare e dalle fonti rinnovabili e investendo nelle tecnologie sulle maree, sulla desalinizzazione marina ed anche riprendendo dopo 35 anni l’attività nel settore nucleare, che non può mancare nel mondo di oggi.  Oppure, l’importante tema dell’ambiente non verrà più trattato con la predicazione emotiva delle colpe dei cattivi potenti da scongiurare mediante le campagne celebrative programmate negli studi pubblicitari. Verrà trattato indicando in dettaglio  le cose da fare in ogni iniziativa umana così da mantenere davvero il controllo sul conseguente impatto ambientale in termini di responsabile equilibrio.  Cominciando dal seguire quello che dice la scienza sperimentale degli scienziati (non l’affabulazione dei mezzi di comunicazione e dei social) sulla questione del clima, preoccupandoci di agire con azioni davvero a nostra disposizione, sperimentate e sperimentabili, prima di tutto in campo meteorologico , un campo che non deve mai essere concepito come un terreno sfruttabile per eccitare i cittadini e che deve essere maneggiato nella dimensione umana.

Il legame della formazione liberale ai fatti del mondo concreto, è alla base della fisiologia politico culturale del liberalismo. Il suo modo di essere, differentemente dalle religioni e dalle ideologie,  sta nello sforzo di modellarsi sulla realtà. Per tale motivo la fisiologia liberale ha come punto di partenza il cittadino individuo, ognuno diverso per corpo e cervello ed uguale agli altri di fronte alla legge. Tale metodo individuale, proprio perché fondato sul confronto sperimentale tra iniziative diverse, da origine a due linee.  Rifugge necessariamente il concetto di capo solitario e  favorisce il cambiamento connaturato al vivere. Rifugge il capo solitario in quanto attitudine estranea al liberalismo dato che contraddice il sistema del confronto conflitto tra i cittadini e crea privilegi. Favorisce il  cambiamento perché applica il liberalismo, che è la medicina naturale per sgretolare la conservazione, il sistema prevalente nel convivere durante millenni che però non è in grado di seguire in pieno e per tempo il ritmo della realtà vivente.

Il liberalismo è per natura contrapposto alla conservazione. L’illusione del conservatore è impedire alle cose di accadere finché presentano pericoli, e di fatto esprime una concezione statica che non vuole innovare l’esistente, che punta solo alla sicurezza escludendo il rischio (un’anima del liberalismo) e che soprattutto vorrebbe eliminare il tempo. Il liberalismo si àncora ai fatti concreti e si prefigge in ogni momento e luogo di sciogliere i nodi che ostacolano le iniziative della libertà individuale, dunque è di continuo alla ricerca del cambiamento liberatore. Tale ricerca il liberale la fa praticando la moderazione riflessiva del proprio senso critico e delle proposte operative da sperimentare. Il che testimonia che il cambiamento liberale non appartiene alla logica di far la rivoluzione (che si infiamma cancellando il passato e neppure superandolo davvero) ma a quella della trasformazione anche profonda (che incide sull’esistente per farlo evolvere in modo strutturale verso un maggiore. apertura).

Adottare il metodo individuale e il suo conseguente confronto sperimentale, innesca un cambiamento che, quando risulta positivo, diviene stabile (fino a quando successivamente si scopre inadeguato al nuovo tempo della libertà) e che costituisce la base di valutazione del funzionamento della specifica convivenza istituzionale. E’ su questa base che si forma la credibilità esterna di quella istituzione, vale a dire il riconoscimento che  essa, al fine di rispondere ai problemi del vivere quotidiano,  segue principalmente il metodo individuale, critico e rispettoso dei fatti. Nella realtà e nel filone liberale, la credibilità non dipende mai da presunti personaggi del destino, cui fanno ricorso solo concezioni ideologiche oppressive del cittadino, tra cui in Italia al giorno d’oggi svetta quella dei restauratori elitari.

Del resto, questo metodo individuale dei liberali è l’opposto della politica  chiusa in sé che protegge gli amici. E’  il sistema più sicuro per  cogliere la varietà della vita al passar del tempo e nei differenti ambiti territoriali. Supera la visione politica arretrata della rigida tripartizione in locale, nazionale ed estera. Nella visione liberale, la politica locale è l’ambito più vicino alle valutazioni dei cittadini, quella nazionale agisce in base agli indirizzi dei cittadini ed è soggetta al loro giudizio complessivo, quella estera è svolta dal governo in nome degli interessi nazionali e secondo i riscontri presso i cittadini. Così per il liberalismo, in ognuno dei tre ambiti, la sfida è manutenere sempre lo sviluppo della libertà e della diversità civile, ragion per cui anche in quello estero non deve essere seguita una concezione ispirata al potere degli stati invece che a libertà e diversità. Dunque la politica estera dei liberali non può prescindere dallo sforzo di garantire gli scambi di persone e merci pure tra realtà istituzionali contrapposte appunto sul tema della libertà. Non si giustifica in alcun modo, per i liberali, una politica estera che rallenta o addirittura impedisce gli scambi tra cittadini di stati differenti. Una politica estera del genere trasformerebbe la libertà in un marchio imperiale con essa incompatibile. Pertanto i liberali non confondono mai la collocazione internazionale dell’Italia – dalla parte dell’Occidente, al lavoro per costruire l’UE, esser membri della NATO  – con l’assecondare o anche solo subire la malattia dell’Occidente., la quale concepisce queste scelte internazionali venendo meno alla concezione della libertà e della diversità individuali come motore dello sviluppo umano. 

Insomma, la cifra distintiva del liberalismo è quella della libertà e della diversità che si sforzano, in  ogni momento ed in ogni luogo, tramite il confronto tra tutti  i cittadini, di individuare l’equilibrio adatto che determini, nella convivenza di allora in quel territorio, le relazioni interumane più aperte possibili. Per farlo, il liberalismo adopera sia il creare regole da rispettare per convivere (prescrittive ma non immutabili), sia il costruire istituzioni per svolgere un servizio di supporto diffuso a favore dei conviventi. Usa le regole stando attento a non renderle mai un totem al di sopra degli umani. Sono decise dai cittadini al fine di rendere possibili relazioni   eque tra di loro e non possono divenire una preminenza autonoma che, salvo la piena esecuzione della pena in quanto risarcimento per la colpa verso la società, giunga ad escludere gli aspetti umani.  In modo analogo, le istituzioni sono indispensabili quale centro di continua osservazione, che funga da sistema di garanzia perché ciascuno possa disporre di quanto necessario per il proprio modo d’essere e per le proprie   iniziative di fronte ai problemi del vivere. Nel complesso, le regole e le istituzioni sono per il liberalismo qualcosa di duttile finalizzato a rendere migliori le relazioni tra i cittadini, a cominciare dalle esigenze di vita quotidiane di ciascuno.

Una struttura che realizzi l’impostazione liberale sarebbe una grossa novità. Gli stati tradizionali modellati in chiave religiosa o ideologica, hanno sempre puntato a strutture più possibile corrispondenti alle impostazioni del capo e del gruppo dirigente, ritenute le sole adatte a soddisfare le attese dei cittadini (che perciò sarebbero attese collettive).  Invece il liberalismo si modella al massimo sulla realtà concreta, aliena dalla rigidità e dall’effettiva immutabilità. E’ il punto decisivo. Il mondo è un dato cangiante, non una teoria statica. Così il liberalismo  si sforza di adeguarsi per quanto riesce, facendo  assumere caratteristiche analoghe  alle regole pubbliche e alle istituzioni. Che sono uno stato di variabilità , di relativa incertezza, di essenziale non definitività. Non soltanto per il trascorrere del tempo, ma proprio per la condizione di fondo duttile del modo di esistere perfino dello stesso tempo (la scienza ha comprovato che anche esso non è del tutto identico in qualsiasi condizione).  Le cose del mondo sono inseparabili dalla conoscenza relativista. Lo stesso anche il liberalismo.

Nel mare degli aspetti cangianti, fino ad oggi la scienza fisica ha colto solo due costanti generali: la velocità di propagazione delle onde luminose e il necessario procedere del mondo dallo stato di ordine a quello di disordine. Ebbene, il liberalismo riproduce la prima costante mediante il metodo liberale, che, mantenendo e ampliando i contatti interpersonali, serve ad affrontare i nodi irrisolti della  libertà con proposte dirette  a scioglierli. E riprende la struttura della seconda costante  mediante l’uso del metodo individuale, che continua a corrodere sempre più l’ordine originario dando sempre più valore  al singolo esprimersi dei cittadini viventi all’epoca (quindi diminuisce l’ordine conformistico).

Questo relativismo sperimentalmente controllato,  è l’essenza del liberalismo. Che pertanto si è evoluto e  si evolve mettendosi al passo dell’allargarsi della conoscenza indotto dalla fisica classica, poi dalla relatività generale e nell’ultimo secolo dalle progressive scoperte della meccanica quantistica che hanno gettato di continuo nuova luce  sul modo di funzionare del mondo alle dimensioni piccolissime. Il che è risultato decisivo per iniziare a comprendere che la scala della libertà e della diversità umane non è descrivibile tramite logiche deterministiche e collettive. Si nutre del confronto tra tutti  i cittadini e può essere descritta solo in termini di probabilità circa quello che in ogni momento può divenire il materiale futuro effettivo. Appunto la situazione messa in moto dal conflitto liberale secondo le regole. Una situazione variabile, incerta,  con sbocchi alternativi plurimi, tendente a provocare mutamenti. Dominanti sono le scelte degli individui nel conflitto tra di loro.

6 – Anche questo semestre è stato un’esperienza istruttiva. La quale conferma   l’urgente necessità in Italia di una formazione dei liberali. E conferma inoltre il perché il liberalismo non sia surrogabile da aggregazioni non liberali. Tali aggregazioni non possono accettare di includere anche solo in parte il metodo liberale, in quanto è in contrasto inaggirabile con la loro natura di voler imporsi sulla realtà per realizzare il proprio libro sacro od analoghe concezioni rigide. Il che è inaccettabile per i liberali. E quando pensano di accettarlo, sognano l’impossibile. Mentre è innegabile la costante paura degli altri verso il liberalismo, soprattutto perché non lo comprendono nella sua dinamica non deterministica.

Urge che chi condivide le idee liberali, si applichi nella prospettiva di creare quanto prima in Italia la Formazione delle Libertà, indispensabile per il riequilibrio della gestione pubblica della convivenza. Che significa innanzitutto comportarsi da intransigenti. Iniziando dal non accettare il modo di governare burocratico elitario dei partiti ideologici che non intendono far scegliere davvero i cittadini, ma – al contrario  di quanto fatto negli ultimi anni  dai populisti – impegnandosi a diffondere un progetto alternativo liberale fondato su individui critici, sulla cultura e sull’esperienza della libertà e non sulle bandiere emotive.  E’ ragionevole pensare che l’occasione per iniziare a farlo si presenterà dopo il voto del 25 settembre.

Il fatto stesso della assenza a questo turno di liste compiutamente liberali nonché i dati dei sondaggi, portano a prevedere una vittoria del centro destra o al più  una sorta di pareggio al senato, ma in ogni caso ad un insuccesso della sinistra dimentica di sé ed asservita alle elites burocratiche. Da qui un governo in sostanza conservatore, lontano dai liberali, un liquefarsi del blocco elitario, per sua natura non disposto a schierarsi dalla parte perdente, e uno scompaginarsi della sinistra, che, dall’epoca del PDS in poi, ha cercato in vario modo di mimetizzarsi come sede del bene e del giusto  a prescindere dal fare, seppure in ritardo pluridecennale, una scelta sul piano ideologico di vera rottura dei legami con l’utopia marxista. In un quadro siffatto, è plausibile supporre che si allenterà parecchio il pregiudizio ideologico contro il liberalismo e che l’accumularsi di problemi che richiedono sempre più l’effettiva apertura dei rapporti civili e la crescita della libertà civile praticata davvero, daranno più spazio ai cittadini che intendono far maturare un’opposizione dando vita finalmente alla Formazione delle Libertà riequilibratrice. In tal caso, avrà fruttificato l’esperienza istruttiva.

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