Sentenza Di Ciotti, il nodo della questione

Intervenendo nel dibattito sul caso Diciotti, la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano ha emanato una nota dal tono ultimativo che elude il tema discusso.

Dice la nota “Le decisioni della Corte di Cassazione possono essere oggetto di critica. Sono, invece, inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”. Peraltro il dibattito non verte sui supposti insulti bensì sulla sentenza in sé.

La Presidente del Consiglio la critica con durezza, argomentando che “si basa su un principio risarcitorio assai opinabile, la presunzione del danno, in contrasto con la giurisprudenza consolidata e con le conclusioni del Procuratore”. Tuttavia, non sono queste le questioni più delicate aperte dalla sentenza. Le questioni più delicate stanno nel ragionamento adottato dalla Cassazione per motivarla.

Afferma che l’obbligo di soccorso in mare “corrisponde a un’antica regola di carattere consuetudinario, e costituisce un preciso dovere per tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo. Esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”.

Un simile ragionamento non ha fondamenti né di fatto né costituzionali. Di fatto perché il caso della Di Ciotti – la nave della Marina Militare, cui dopo un soccorso di circa 200 migranti, ormeggiata del Porto di Catania, venne ordinato per sei giorni di non sbarcarli –  non rientra nel dato materiale del soccorso (già avvenuto) bensì nelle successive modalità di gestirlo quando la nave si trovava in territorio italiano e soggetta alle decisioni delle autorità.

Non ha neppure fondamenti costituzionali, dal momento che non esiste alcuna norma che sancisca che il soccorso in mare costituisca per “i soggetti, pubblici o privati, qualcosa da considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione  irregolare”. Pertnato, una siffatta decisione  spetta al governo e più in generale al parlamento. Invece, la Cassazione, accreditandosi il ruolo di prenderla, compie un atto legislativo, e perciò esce dai compiti ad essa  assegnati. Il nodo sta proprio qui.

Il Presidente Cassano , affermando la “messa in discussione della divisione dei poteri “, in apparenza fa propria la tesi sui poteri di Montesquieu, in pratica non tiene conto di quanto disposto dalla Costituzione e neppure di quanto scritto dallo stesso Montesquieu. La Costituzione dice che ”la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, non che la magistratura è un potere. Il senso profondo della differenza lo aveva già spiegato Montesqieu: “non vi è libertà quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario,  poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore”

Insomma, la Presidente Cassano non affronta il nodo cruciale della polemica. E’ elusiva in ossequio al sogno della casta cui appartiene. L’aspirazione ad essere un potere che in termini costituzionali (e liberali) non può esistere.

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Una specifica aggiuntiva (ad Andrea Bitetto)

Caro Andrea,

apprezzo molto il tuo articolo in tema di spirito della Common Law apparso sul recente numero di Non Mollare. Dotto e ficcante, illustra con efficacia come si è arrivati a definire un cardine irrinunciabile dell’ordinamento della convivenza libera: “il Re non deve sottostare a nessun uomo, ma solo a Dio ed alla Legge”. Era vero nel 1612 e lo è poco meno di 413 anni dopo.

Tuttavia, per chi è liberale, è essenziale specificare un’aggiunta: non sul Dio spiritualmente inteso, bensì sulla Legge, la quale, passati oltre quattro secoli, resta la regola concettuale per convivere e conoscere, ma ha assunto una forma terminologica del tutto differente. Ciò – sempre per i liberali – ha un preciso significato. Il concetto di regola permane, però rispettarlo si riferisce non al testo della Legge del 1612, o a quelli intermedi, bensì a quello vigente oggi.  Il che  significa introdurre un aspetto da cui non si può prescindere. Le scelte che al passar del tempo fanno i cittadini con il loro voto.

Una simile specifica aggiuntiva non è un dettaglio, ancor meno scontato. Serve a rendere impossibile il cristallizzarsi di una concezione sacrale della Legge e del ruolo di coloro che hanno il compito professionale di giudicarne  l’applicazione nei rapporti tra i cittadini. Basta questo per farne una condizione chiave al fine di raggiungere una convivenza civile che si mantiene aperta proprio aggiornando le regole di continuo.

Perciò è una precisazione da cui i liberali non possono prescindere. Nella cultura liberale,  essere competenti significa sì valorizzare il riflettere sul mondo e sulle relazioni attorno a noi. Però respingendo sempre la tentazione di affidare il governo del vivere insieme, a presunte élites di esperti, pensando che ne sappiano più degli altri cittadini. Pur non essendo sicuro che il voto dei cittadini scelga ogni volta la soluzione più adatta, l’esperienza storica mostra che, reiterando le elezioni, finisce sempre per prevalere la soluzione che porta alla convivenza aperta tra gli individui conviventi. Prospettiva che le elites non sono in grado di assicurare, poiché sono propense a trascurare le indicazioni dei loro cittadini.

Tu ampli la frase che riportato all’inizio, scrivendo che lo stesso “vale per i Presidenti degli Stati Uniti”. Senza dubbio. Ora Trump non è un liberale, ma non sta tradendo il voto ricevuto. Allora perché le reazioni ossessive contro Trump dopo l’incontro con Zelensky, considerata oltretutto l’oggettiva aggressività di Zelensky durante  la prima mezz’ora?

Pare che a Trump venga rimproverato di voler cambiare le scelte preesistenti, appunto quello che gli hanno chiesto gli elettori (Trump ha ottenuto due milioni e trecentomila voti assoluti in più della Harris). Vale a dire la maggioranza degli americani gli ha chiesto il cambio di linea politica e Trump lo attua.  

La specifica aggiuntiva fatta sopra risulta perciò decisiva per la corretta applicazione ai giorni nostri dell’episodio 1612 da Te citato.

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IL. CUORE DELL’OCCIDENTE  SONO  L’ESPRIMERE LE LIBERTA’  INDIVIDUALI  NON  LE   ELITES

Ernesto Galli della Loggia è un editorialista di vaglio,  persona colta , ferrato cultore degli studi storici, partito dalla sinistra studentesca, approdato, dai tardi  anni ’80,  su posizioni  attente ai ritmi del convivere aperto. Da quell’epoca, tuttavia, le sue riflessioni , spesso acute, non sono mai riuscite, ad avvicinarsi al metodo liberale quando tratta di prospettive future.  Il suo articolo sul Corriere di sabato 1 marzo  ne è una riprova lampante.

Galli della Loggia è molto preoccupato per la politica USA nell’epoca Trump e lo motiva tirando in ballo il liberalismo. Scrive che Trump usa “parole di minacce, di prepotenza, di disprezzo” con il programma di “una democrazia senza liberalismo e dunque senza élite”. Parole finali che sono un grave errore in termini liberali, dato che il liberalismo punta a far maturare ogni cittadino e non si affida mai a nessuna élite. Errore confermato ed aggravato dalla spiegazione che vien dopo.

 Galli della Loggia afferma che “tra il suffragio universale e i diritti inviolabili di libertà individuale  c’è stato un felice incontro storico, ma non c’è alcun nesso necessario”. Una affermazione simile è un infortunio concettuale nel campo del pensiero liberale. Perché il pensiero liberale si fonda sulla diversità ma non esclude il convivere di tutti, anzi lo considera un presupposto di libertà. Quindi la libertà individuale richiede necessariamente che tutti abbiano il diritto di votare, che  la diversità coinvolga tutti, che la massa viva solo a condizione di non volere imporsi come uguaglianza indistinta.

Vale a dire, il liberalismo sussiste quando l’uguaglianza riguarda solo i diritti nel convivere e non tocca gli individui tutti diversi. Nel complesso, il suffragio universale è una condizione necessaria ma non sufficiente della libertà individuale, e la libertà individuale vuole il suffragio universale senza  esaurire in esso il suo modo d’essere.

Non è vero che, come scrive Galli della Loggia, “i diritti individuali hanno un’origine  e conservano un carattere, in un certo senso aristocratico”. Almeno, non è ormai vero in un mondo moderno e liberale in termini più consapevoli. Che perciò rifugge da ogni genere di classe, anche quella elevata. O meglio, con maggior esattezza,  che rifugge da concezioni e da istituzioni incapaci di adeguarsi al tempo che passa. Perché aristocrazie od élites non costituiscono gruppi sociali adatti ad ogni campo e ad ogni tempo. Non sono loro che fanno contare il merito e lo applicano, sono invece le capacità degli individui che, con modalità differenti nei vari settori e nelle persone, astraggono nuove conoscenze osservando il mondo, sperimentano nuove ipotesi, fanno  circolare idee e cose, verificano i risultati delle iniziative innovative. Sotto il profilo liberale, aristocrazie od élites possono sussistere esclusivamente in settori  specifici e in periodi temporali circoscritti. Sono invariabilmente soggette al cambiamento con lo scorrere del tempo. Quello che si staglia sempre dominante è l’individuo responsabile attento al mondo concreto, esplorato con iniziative sempre nuove.

Il cuore dell’Occidente è la libertà del cittadino individuo, che trova la sua stabilità nella fisiologia del cambiare secondo le regole. Appartengono ad un passato che non torna, il richiamarsi ad aristocrazie od élites, il dare agli avversari politici l’etichetta di soggetti deplorevoli (come fece Hilary Clinton quando perse con Trump la gara della Casa Bianca), il pensare davvero che le élites e le loro presunte competenze, possano restare non sostituibili anche quando esercitano il governo mantenendosi ben lontane dall’effettivo contatto con i cittadini e dalle  indicazioni che essi danno.

Le destre e Trump sono cresciuti parecchio in Occidente non per una svolta in direzione autoritaria che avrebbe interrotto, come sostiene Galli della Loggia, il “contemperare in vari modi diritti ed elezioni, élite e volontà popolare”, quanto perché i cittadini hanno progressivamente respinto il malgoverno di democratici avvinti al potere autoreferenziale nel sogno di essere predestinati. 

Negli USA c’è stato il predominio dei gruppi fissati nel privilegiare le minoranze impositive negatrici della diversità, nella storia e nel tempo. Nella UE, c’è stato   un progressivo allontanarsi dal contatto con i cittadini e il regresso ad un vecchio tipo di istituzioni dirette da centri di potere, interni ed internazionali. Tale atteggiamento si è irrobustito nel l’ultimo quindicennio, rendendo l’UE disattenta ai. cittadini, propensa ad imporre più che ad ascoltare, crescentemente dipendente dagli aiuti USA e in sostanza succube della Nato.

Per questa via, l’UE ha dimenticato il suo nuovo progetto originario di valori istituzionali imperniati sul libero cittadino e un poco alla volta, non accorgendosene, ha tralasciato i comportamenti occidentali della libertà di scambio sostituendola con l’ossessione Nato di prevalere sulle volontà imperiali putiniane. Così l’UE non si è preoccupata di procedere in settori per lei essenziali, quali la difesa, il fisco, l’economia, ed ha finito per contribuire in Ucraina alle condizioni di una nuova guerra fredda verso l’autocrazia russa.

Tale stato di cose è sorto prima che Trump rientrasse alla Casa Bianca. Dunque la ricostruzione di Galli della Loggia manca di un dato essenziale. E pure il pericolo da lui segnalato – la propensione al dar peso solo al vincere le elezioni  – non può rimuovere l’assoluta necessità, in una democrazia liberale, di mantenere il risultato elettorale al primo posto .  

Le competenze delle élites di cui parla Galli della Loggia non devono per nessuna ragione prescindere dalle scelte dei cittadini con il voto. L’esperienza storica insegna che i cittadini possono sbagliare in alcuni momenti ma che, nel medio periodo, il ricorso al voto è l’unica effettiva garanzia che indica alla convivenza il cammino più efficace.  A differenza del ricorso alle élites e alle competenze, che in realtà, restando immobili, sono un sostanziale ostacolo al fisiologico evolversi del vivere tra diversi nel nome della libertà.

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Riflessioni su un mio articolo (ad Antonio Cokantuoni)

Da Antonio Colantuoni a Raffaello Morelli, giovedì 27 febbraio, oe 18,04

Caro Raffaello,

concordo sulla centralità e sulla discussione tra cittadini! Ciao! Antonio

da Raffaello Morelli ad Antonio Colantuoni, mercoledì 26 febbraio ore 15,35

Caro Antonio,

Perché i cittadini europei possano decidere di mandare avanti la costruzione europea, si deve affidare loro questa funzione. Come volevano i trattati di Roma e come non si va dopo il 1992. Imperniandosi sui cittadini e adottando il metodo del libero confronto tra di loro, vengono subito accantonate le pretese di raggiungere un assetto definitivo nel quale qualcuno o qualcosa prevale una volta per sempre. Negli ultimi trenta anno, in Occidente si è dimenticato il criterio della libertà di scelta e via via ci si è affidati sempre più alla libertà imperiale, la quale ha fatto ammalare l’occidente portandolo nella direzione del dissolversi. Le destre, nelle loro varie forme e il trumpismo, sono la reazione distorta a questo inclinazione pseudo elitaria che ha voluto governare allontanandosii dai cittadini all’insegna di un presunto bene comune. Solo riscoprendo la discussione tra cittadini diversi che si confrontano ul come sciogliere i nodi della convivenza che sorgono di continuo, è possibile ritrovare la strada della libertà di scambio e dimostrare la sua maggiore efficacia nel governare la convivenza. Cari  saluti. Raffaello 

da Antonio Colantuoni a Raffaello Morelli, martedì 24 febbraio, ore 12,02

Caro Raffaello, grazie per l’articolo, che mi hai inviato. Sono d’accordo con Te sul fatto che i cittadini EU dovrebbero scegliere di stare uniti in un grande stato Europeo. Resta il fatto che sono forti le tendenze a stare isolati e non uniti, dimostrando in modo palese che non siamo in grado di fare una politica seria europea. Speriamo bene! Su Trump che fa l’imperatore non mi faccio illusioni. Sono forti gli impulsi autoritari di una persona che ha fatto di tutto per affermare le sua visione imperiale: ci considera come gli Afgani: è lui che fa la pace e costringe gli altri a seguire i suoi intendimenti. Biden ha accettato che la pace in Afganistan fosse decisa da Trump e non dagli afgani eletti, che sono scappati con i soldi, dopo che gli americani di Biden si erano ritirati. La nostra libertà dipende solo da noi stessi europei.  Ciao! Antonio

da Raffaello Morelli ad Antonio Colantioni, sabatp 22 febbraio 2024 ore 11,05

Caro Antonio, mi permetto di allegarti un mio articolo pubblicato ieri su PensaLIbero.it ,  Cordialità.     Raffaello

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Occidente e UE, il pericolo dell’immobilismo

L’Occidente si dissolve? – Da alcune settimane emerge con chiarezza che è collassato il disegno ultradecennale  NATO del segretario Stoltenberg, di resuscitare la guerra fredda contro la Russia per mezzo del caso Ucraina. Soprattutto (ma non solo) i grandi quotidiani italiani, sulla scorta di notizie allarmatissime dall’UE, martellano sull’idea che ciò sia frutto dall’arrivo di Trump e che comporti il grave pericolo del dissolversi dell’Occidente.

E’ un’idea sbagliata nei fondamentali. Intendo spiegarlo prendendo spunto dagli articoli di questi giorni di tre rilevanti personaggi, Lucio Caracciolo, Mario Draghi e Federico Rampini. Tutti e tre hanno una ampia visione del mondo ma trascurano non per caso il ruolo dei cittadini, nell’UE e negli USA. Atteggiamento davvero non incisivo quando l’argomento è la convivenza in Occidente.

Parole di Caracciolo – Caracciolo alterna considerazioni esatte (“noi europei siamo al meglio attori secondari”) ed inesatte (“il formato Ue scade insieme a quello Nato”), visto che la NATO è un’alleanza militare dell’aprile 1949, mentre il Trattato di Roma, fine marzo 1957, è un’istituzione civile di nuovo tipo fatta nascere dal liberale Gaetano Martino nel solco dell’economia quotidiana aperta degli abitanti dei sei stati fondatori.

Poi Caracciolo, sempre con il pregiudiziale  identificare Europa e NATO, critica “la retorica atlantista ed europeista” che ha mascherato la realtà, però accetta che la ripresa UE possa passare da “un percorso comune fra i principali Paesi europei”. Solo che l’Europa dei Trattati di Roma non era solo un accordo tra gli Stati bensì prefigurava una collaborazione concreta tra i cittadini (insopprimibile senza sopprimere l’Europa).

In seguito, Caracciolo ricorda che  un obiettivo prioritario degli americani è scardinare la coppia Russia-Cina “paradossalmente unite dagli Stati Uniti nella crisi ucraina” (quindi, pur identificando USA e NATO, riconosce che la crisi Ucraina ha avuto l’effetto opposto al desiderato). Inoltre un obiettivo strutturale USA è richiedere “ai non più protetti europei sacrifici che non siamo in grado di sostenere”, poiché gli europei sono fermi all’idea “che la guerra in Europa fosse stata abolita per sempre”. Infine Caracciolo conclude sulla linea Stoltenberg  “le principali vittime sono e saranno gli ucraini, che… paiono allo stremo…. C’era una volta l’Occidente”. Questa è una narrazione che prescinde dai fatti.

Da lungo tempo la NATO operava in Ucraina per attizzarla contro la Russia. L’Ucraina, dieci anni fa, aveva firmato a Minsk un trattato con Francia, Germania e Russia che prevedeva di inserire in Costituzione  l’autonomia del Donbas. Kiev ha modificato la Costituzione senza inserirvi l’autonomia del Donbas. E ciò ha portato all’invasione dell’autocratica Russia. Un po’ alla volta, però, i fautori della guerra fredda a Putin tramite l’Ucraina sono restati invischiati nella loro stessa rete di notizie gonfiate  per snaturare la libertà occidentale facendone un mezzo di imperio. E’. la riprova che l’Occidente svanisce quando dimentica quale sia la libertà che lo distingue. 

Parole di Draghi – Mario Draghi, alla settimana parlamentare 2025 a Strasburgo, ha  detto  cose giuste in teoria ma omesso il tema cittadini, che è quello decisivo. Collegandosi ai suoi noti rapporti, ha constatato la condizione di fatto : “il tempo non è dalla nostra parte, con l’economia europea che ristagna mentre gran parte del mondo cresce”. Ma non è andato oltre al constatare. Non basta affermare l’ovvio (“per far fronte alle sfide, è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre più come se fossimo un unico Stato”). E’ indispensabile dire il come arrivarci. E sul punto silenzio. Anzi, una conclamata inconsapevolezza di quale sia la chiave funzionante: recuperare il ricorso al confrontarsi politico dei cittadini e alle loro libere decisioni, messo in soffitta da decenni. Ma Draghi questa libertà non la coglie. Addirittura non la inserisce neanche tra i motivi fondativi (“l’UE è stata creata per garantire pace, indipendenza, sicurezza, sovranità e poi sostenibilità, prosperità, democrazia, la giustizia e l’illusione, tanta roba. Siamo riusciti a garantire tutto questo. Ora il mondo confortevole è finito, e dobbiamo chiederci se vogliamo difendere questi valori fondamentali o vogliamo mollare la presa”. Proprio non afferra il valore fondamentale della libertà dei cittadini al fine di affrontare le turbolenze del mondo che la Presidenza Trump ha messo in evidenza.

Parole di Rampini – Federico Rampini osserva meticoloso “Putin viene ri-legittimato dopo che l’Occidente lo aveva messo al bando per quasi tre anni. Zelensky è relegato in secondo piano. L’Europa pure, incassa una umiliazione. Poi precisa “È ipocrita continuare a fingere che l’Ucraina potesse vincere sul piano militare: la guerra era, nella migliore delle ipotesi, in una situazione di stallo da molto tempo e non per colpa di Trump. Semmai la colpa è dell’aiuto troppo limitato e contraddittorio che l’Occidente ha dato agli ucraini, molto prima che Trump tornasse alla Casa Bianca”. Del resto, continua Rampini, l’UE “è un gigante economico, dieci volte più ricco della Russia (letteralmente), ma quante divisioni ha?” Del resto la divisione dell’UE è palese, e costituisce “uno spettacolo che conforta Trump e Putin nel loro disprezzo verso gli europei. Che l’Ucraina entri pure nell’Unione, dunque”. Per di più “regalare l’Ucraina all’Ue è la classica polpetta avvelenata. L’Europa è malata di stagnazione, ha una pressione fiscale tremenda, non brilla per la sua capacità di creare occupazione ben pagata, di innovare, di beneficiare dalle rivoluzioni tecnologiche. Accogliere l’Ucraina verrebbe vissuto come un onere spaventoso. Prima, per i costi della sua ricostruzione. Poi, perché l’Ucraina avrebbe da subito il diritto a enormi trasferimenti di risorse per le sue regioni depresse e per la sua grossa agricoltura”.

Rampini cita un noto storico conservatore non trumpiano, il quale domanda “se l’Occidente transatlantico sopravvivrà come forza attiva negli affari globali”?. E Rampini osserva che “i principali governi occidentali non sono disposti a fornire all’Ucraina abbastanza aiuti da rendere la vittoria un obiettivo realistico”. Nel suo scritto,  afferma pure che “il risultato finale della politica di Trump per l’Ucraina sarà probabilmente lo stesso di quella di Joe Biden: l’Ucraina perderà territorio, e non avrà un futuro sotto l’ombrello dell’Articolo 5 della NATO. La domanda è cosa accadrà dopo…. Biden riteneva che l’unità della NATO fosse il miglior deterrente contro gli attacchi russi e la chiave per la stabilità in Europa. La visione del team di Trump è completamente diversa. L’Ue ha più popolazione e più risorse della Russia e dovrebbe essere perfettamente in grado di contenere Mosca. Washington non può essere trascinata in una responsabilità prolungata per il futuro dell’Ucraina. Contenere la Russia è un problema europeo”. Oltretutto, sottolinea Rampini, è chiara la divergenza di opinioni. “Per molti europei e i loro alleati americani, la presidenza di Trump è un attacco alla democrazia oltre che alla solidarietà transatlantica.Per i sostenitori del presidente, invece, sono gli europei ad aver tradito l’Occidente.Strategie di difesa nazionale sbagliate, politiche economiche autolesioniste, censura e misure culturali e migratorie suicide hanno eroso le basi strategiche e morali che un tempo univano l’Occidente”.

Accuse all’UE – Una simile accusa di tradimento, anche se viene da un pulpito interessato, è fondata, soprattutto se si allarga alla NATO e al rapporto di sudditanza UE nei suoi confronti. Ciò è potuto accadere poiché a poco a poco l’UE, concepita imperniata sull’attività dei cittadini, ha prima arrestato il suo cammino e, dopo Maastricht nel 1992,  ha perfino iniziato ad invertirlo per ritornare alla vecchia concezione degli stati di potere e alle loro pratiche di convenienza governativa, fondata sulle alleanze di forza e non sui   principi civili.

Così, da anni l’UE ha accettato passivamente le manovre NATO inclini alla guerra fredda tramite l’Ucraina. Anzi, si è addirittura impegnata ad esserne una corifea, facendo riferimento ai valori di libertà e di autodeterminazione dei popoli. Tuttavia una simile posizione non funziona. Per struttura è incompatibile con la realtà UE dell’ultimo trentennio. Che non è davvero quella dei Trattati di Roma, e non corrisponde ad un impegno di libera partecipazione dei rispettivi cittadini nel segno della libertà delle idee e della circolazione di persone e di merci. Inoltre l’UE del dopo Maastricht neppure è un vero soggetto geopolitico , siccome i veri stati si fondano su una popolazione in sostanza omogenea (non nella UE). L’UE attuale è solo un tentativo di ritornare ad un tipo di organizzazione del passato, ispirata a criteri di potenza territoriale e di governo nelle mani di pochi, non dei cittadini.

Di un tale dato di fatto, non hanno preso coscienza né gli ambienti UE al comando negli ultimi tre decenni né quelli dei giornali comunque allineati al conformismo vigente. La mancata coscienza li ha spinti a rifugiarsi,  per dar valore al proprio presunto ruolo imperiale, nel fabbricare scenari immaginifici, sempre sorvolando sui cittadini. L’immaginazione è saltata non tanto con l’uscita di scena del vecchio segretario NATO, quanto con l’arrivo di Trump. Ecco perché è tanto odiato. Ha rotto privilegi consolidati e l’abitudine al regime e al conformismo derivante.  Negli USA e nell’UE.

Ci sono celebri giuristi scandalizzati per l’accusa del vice Trump all’UE di negare la libertà, mentre lui fa visita al capo dell’estrema destra tedesca. Non si rendono conto  che scandalizzarsi per questo motivo, conferma l’accusa. Meno male che ci sono alcuni giornalisti, come Taino uno dei pochi di cultura liberale, che ricordano come l’UE non sia stata all’altezza  di affrontare  le sfide della difesa e dell’economia, due sfide inseparabili per sopravvivere.

Il ritorno ai fondamenti – L’essenziale  per l’Occidente e per l’UE è tornare ai fondamentali. Riscoprendo che la libertà civile può essere protagonista solo quando i meccanismi dei rapporti tra i cittadini individui sono davvero all’insegna dei contrappesi, del rimuovere il conformismo, dell’agire dinamico, del contenere le élites. Le strutture obsolete, suddivise in modo rigido dal ritorno al passato, generano debolezza nociva. La vera sfida non è il tran tran immobilista, ma cambiare per prosperare. Iniziando, nel caso UE, dal dibattere tra i cittadini i temi della Difesa e dell’Economia UE.

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La politica civile è in ritardo permanente su scienza e tecnologia

 

Intendo illustrare una spiegazione verosimile di un dato oggettivo: il divario temporale tra i continui  progressi della scienza e della tecnologia, e  le pasticciate difficoltà nella confusa politica del convivere, spesso scarsamente produttiva. Il nocciolo di tale divario ritengo stia nel differente utilizzo  – nella scienza e nella tecnologia rispetto a quelli nella vita politica del convivere – degli apporti forniti dai cittadini individui.

Scienza e tecnologia, da circa tre secoli, fanno crescere in sostanza di continuo la conoscenza del mondo e la disponibilità di strumenti forieri di vita migliore. Il come stanno le cose nel mondo viene man mano compreso, seppur tardivamente e all’ingrosso,  anche nella vita politica civile. Però, nella vita politica, vale a dire nel settore convivere ed istituzioni, il modo d’essere dei cittadini è parecchio appesantito dalle prassi millenarie  del vivere insieme. Per cui il cittadino finisce per interessarsi non al comprendere il mondo bensì al riconoscersi negli usi comuni e in ciò che esprime il libro sacro di riferimento, ritenuto superiore ed eterno. 

Pertanto i cittadini, nel valutare le istituzioni, le proprie scelte, le iniziative da assumere, privilegiano il consenso da ottenere nel gruppo di appartenenza e il  proprio capriccio del momento, senza riflettere abbastanza  sui risultati che istituzioni, scelte o iniziative stanno producendo o potranno produrre.  E soprattutto senza riflettere abbastanza a proposito di quali conseguenze avranno sugli effettivi meccanismi di funzionamento di quella libertà individuale, che  sperimentalmente è la colonna portante nel tempo di una convivenza produttiva e gratificante al meglio. Una simile riflessione insufficiente porta a sorvolare sul bisogno di conoscere non superficialmente e, ancora di più, su quello di sperimentare qualsiasi cosa.

Praticare il riflettere insufficiente, equivale a suppore che i punti focali del convivere siano due, il libro sacro religioso alla base della rivelazione di quale sia il mondo e il consenso della cerchia degli amici e degli altri. Ma nella realtà  sono due punti focali insussistenti.  E’ qui che  ha origine il divaricarsi tra politica civile e scienza quanto a capacità di incidere.

La scienza muove esclusivamente dai fatti. E ai fatti è invariabilmente connessa la riflessione scientifica, sia quando astrae, che quando immagina  il come interpretare od utilizzare i dati astratti e poi quando mette alla prova  e verifica  l’ipotesi elaborata su quei dati.  Invece, la politica del convivere non riflette abbastanza perché, rispetto alla realtà dei fatti, è occupata per lo più  ad emozionarsi e a far emozionare. Senza dubbio questa inclinazione emotiva è una parte importante della vita umana. Salvo che non può mai far dimenticare o addirittura indurre qualcuno a rinunciare  all’esercizio del proprio spirito critico. Perché lo spirito critico è fonte di singole conclusioni individuali, le quali confrontate le une con le altre e misurate in base ai conseguenti risultati complessivi, sono indispensabili al fine di conoscere. Il bivio sta qui.

Qui sta peraltro anche il bivio per le conseguenze sul liberalismo. Il liberalismo è fisiologicamente il metodo che, nel rapportarsi alle relazioni tra i conviventi e nell’indicare in ogni momento storico, con lo stare ai fatti,  quale sia l’equilibrio tra diversi adatto  a rendere fluide tali relazioni, si sforza di applicare i sistemi usati dalla scienza al fine di conoscere il mondo (ed è l’unico soggetto a farlo). Allora, quando i cittadini si distaccano dall’attribuire importanza a quei sistemi, a cominciare dall’utilizzo dello spirito critico individuale, per forza di cose si distaccano anche dal liberalismo.

Per tutto ciò, essendo cresciuta nella massa dei cittadini l’abitudine a tener pochissimo conto  dello spirito critico (basti pensare agli odierni social, che seppelliscono lo spirito critico), è perfino naturale che  l’attenzione alla cultura liberale e al liberalismo politico divenga molto scarsa.  Il divario di cui parliamo divenne rilevante più di un secolo fa e portò a finire l’epoca dei governi liberali e del peso determinante dei liberali nelle istituzioni. Da allora, in varie maniere, è proseguito il tenere il liberalismo ai margini (specie in Italia, ove è radicato un robusto conformismo bifronte, alimentato sia dalla religiosità basata sul monopolio terreno invece che sullo spiritualismo sovrannaturale, sia dalla laicità dedita alla cultura marxista invece che alla società aperta).


Da allora, in varie maniere, è proseguito il tenere il liberalismo ai margini (specie in Italia, ove è radicato un robusto conformismo bifronte, alimentato sia dalla religiosità basata sul monopolio terreno invece che sullo spiritualismo sovrannaturale, sia dalla laicità dedita alla cultura marxista invece che alla società aperta).  

Ebbene, al giorno d’oggi una situazione simile è molto  negativa, visto che  l’ attuale  stato del mondo avrebbe particolare bisogno  nel  governare del contributo che da la cultura liberale. Basti richiamare un tema assai attuale. la tecnologia dell’Intelligenza Artificiale. Nei decenni recenti è ormai divenuta uno strumento maturo, mentre nel frattempo la politica senza liberalismo sufficiente non si è accorta che stava maturando. Addirittura la politica tenta ancora di suscitare diffidenza nei confronti dell’IA supposta estranea all’umano. E non è stata neppure capace di affrontare per tempo il proprio compito precipuo : quello di definire le norme utili per evitare che l’impatto dell’IA sulla vita quotidiana sollevi anche nuove problematiche di libertà.

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Il diritto internazionale non c’è ancora

L’articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera  del 10 febbraio è il prototipo di una lettura passatista delle vicende pubbliche internazionali. Vi si legge: “nel nuovo mondo, il mondo che si sta formando sotto i nostri occhi, andranno drasticamente a restringersi il ruolo e lo spazio del diritto internazionale così come è stato concepito (e reinterpretato), sotto la spinta occidentale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale”.
E poi “il ruolo del diritto internazionale torna ad essere quello tradizionale. Ha soprattutto il compito di facilitare i rapporti fra potenze nell’intervallo fra un conflitto armato e l’altro.In un mondo siffatto, l’impronta e l’influenza occidentali sulle istituzioni internazionali si affievoliscono o declinano”. Non è una constatazione. E’ uno slancio di nostalgia. Tanto che per evitare equivoci, dopo precisa “e con quel declino perdono forza le idee su come regolare i rapporti internazionali, idee nate nella società occidentale, e che, per un certo periodo, erano sembrate (o erano state davvero) vincenti”.  

Tale nostalgia però è malposta e non coglie il cuore della questione. Se l’impronta e l’influenza occidentali sulle istituzioni internazionali declinano, non è per il restringersi del ruolo e dello spazio  del diritto internazionale (come scrive Panebianco), ma perché larga parte degli occidentali ha voluto far coincidere l’Occidente con il praticare il diritto internazionale. Impresa impossibile, dato che il vero collante costitutivo dell’Occidente  è la logica della libertà di ogni cittadino elettore e che, applicando questa logica della libertà, il diritto internazionale è limitato ai Trattati sottoscritti e vincola coloro che li hanno sottoscritti e non gli altri. Al di là di tali Trattati il diritto internazionale non esiste. Aver fatto come se esistesse, è una contraddizione dell’Occidente che, facendolo, ha vestito i panni – lo volesse o no – di chi vuole imporre il proprio potere.

Eppure Panebianco insiste e scrive “le istituzioni internazionali, e le pratiche giuridiche connesse, si nutrivano di idee che erano state partorite dalla tradizione occidentale (anche il Tribunale dell’Aja, benché non voluto dagli Stati Uniti)”. Una simile asserzione – a parte l’esatto chiarire che il termine Occidente non coincide con gli Stati Uniti –  non ha fondamento. Troppi in Occidente, dimentichi del ruolo decisivo della libertà di ogni cittadino elettore, attribuiscono in modo spiccio  la patente di difensore dei diritti umani ad istituzioni non sorrette dal voto dei cittadini e che perciò non possono essere una Corte di Giustizia della Libertà. Sono solo dei gruppi elitari che propendono ad imporre una propria visione del mondo a prescindere dai cittadini.  Non per caso, infatti,  i sostenitori dell’esistenza di un diritto internazionale sono proprio coloro che vogliono lasciare il cittadino il più possibile estraneo allo scegliere democratico.  

C’è pure un altro indizio che Panebianco appartiene a quest’ultima categoria. Scrive che diritti umani   “è un’espressione che rinvia al giusnaturalismo cristiano e a quella sua variante secolarizzata che è il pensiero liberale”. Solo che il pensiero liberale non è una variante secolarizzata del cristianesimo (il che implicherebbe una coincidenza di valori), bensì una sua evoluzione (che ha messo in atto conferme ma pure adottato cambiamenti di struttura, quali l’attenzione al passar del tempo).

La conclusione di Panebianco  (“Dobbiamo realisticamente prendere atto del fatto che il diritto internazionale per come era stato concepito in Occidente, e le istituzioni collegate, si avviano verso un drastico ridimensionamento”)  deve essere dunque riformulata. Vanno aggiunte dopo “concepito in Occidente” le parole chiarificatrici “da chi non adotta i criteri della logica della libertà di ogni cittadino elettore” , E poi concluso con le parole “per dirigersi invece  verso l’affidare sempre al cittadino le scelte della convivenza”.   

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Cronologia del liberalismo, fino al 4.2 b.2.p

4.2 b . 2  n – Lø elezioni politiche del novembre ’19 e l’avvio del biennio rosso.-  Nella rappresentanza e negli assetti parlamentari, la nuova legge elettorale produsse un mutamento profondo che avviò il  cambio definitivo degli equilibri politici del Regno. Innanzitutto, nella fase preelettorale ci fu il cambio del sistema di presentazione dei candidati, che dette assoluto rilievo al simbolo nazionale di riferimento. Un fatto in apparenza tecnico, che da allora  spostò l’attenzione politica sull’organizzazione uniforme nei territori, favorendo proposte centralizzate espresse ognuna in un programma di principio deciso a livello nazionale (nei decenni si sperimenterà  che ciò corrisponde ad una logica inadatta a cogliere le esigenze della cultura liberale).  

Nel presentare le liste nei 54 collegi, già il sistema del simbolo fece balzare in testa il Partito Socialista (che presentò il simbolo con falce e martello in 51 collegi) e il Partito Popolare (che presentò il simbolo con lo scudo crociato anch’esso in 51 collegi). Circostanza che fu il primo manifestarsi della capacità operativa dei due partiti di massa, organizzati e disciplinati. Per il resto, la frammentazione fu forte. I liberali si presentarono in due concentrazioni. Una più vicina ai conservatori ed una più vicina ai democratici, ambedue composte da liste con nomi differenti nei vari collegi (nove nomi la prima per 42 collegi e sette la seconda per 33 collegi). Poi vi erano i Democratici (dieci nomi per 41 collegi)  ed altri minori con varie liste diversamente denominate, salvo i Combattenti, i Socialisti Riformisti e i Repubblicani.  Il 16 novembre il PSI ebbe il  32,2% (seggi 156), il PPI il 20,5% (seggi 100),  il gruppo liberale delle liste concordate tra liberali, radicali e democratici il 15,9% (seggi 96) , il Partito Democratico il 10,9% (seggi 60) e l’Unione Liberale (più vicina ai conservatori) l’8,6% (seggi 41). Da ricordare che i Fasci di Combattimento raccolsero meno di cinquemila voti, Mussolini non fu eletto deputato ma in compenso venne arrestato per aver creato un covo di ribelli, venendo scarcerato per intervento del direttore del Corriere della Sera, Albertini, su Nitti cui scrisse “Mussolini è un rudere. E’ uno sconfitto, non occorre farne un martire”.

In Parlamento PSI e PPI, i due partiti di massa, sfioravano sommati  la metà dei seggi, mentre l’area liberale aveva perso la maggioranza. Maggioranza conservata però dal governo Nitti, convinto di aver compiuto le mosse giuste. Né gli fece mutare opinione quanto accadde all’ingresso del Re alla Camera per inaugurare la legislatura. Il gruppo PSI abbandonò l’aula al grido “repubblica socialista”. Fuori dal Parlamento si verificarono aggressioni da parte dei nazionalisti e queste diedero spunto allo sciopero generale a Roma, poi esteso in tutta Italia con svariati morti e moltissimi  feriti. Nelle settimane successive  la Camera approvò la fiducia al Governo  (242 voti contro 216) , con il PSI del tutto in mano ai massimalisti che rifiutava ogni alleanza.

Nitti restava molto preso dall’avversione al Trattato di Pace di Versailles costruito da Sonnino e preferiva riflettere sul come costruire una muova politica collaborativa in Europa.  Sottovalutò non poco che un partito di massa, il PPI, era divenuto determinante per il Governo, pur   non richiamandosi alla cultura liberale. Sturzo aveva illustrato con chiarezza la natura del PPI. “Il popolarismo è democratico ma differisce dalla democrazia liberale perché nega il sistema individualista e accentratore dello stato e vuole  lo stato organico e decentrato: ….afferma il carattere cristiano, perché non vi può oggi essere etica e civiltà che non sia cristiana”.  Il PPI; negando il sistema individualistico, puntava ad uno stato organico nella comunità cattolica e attribuiva al decentramento una mera funzione di cinghia di trasmissione dei valori di questo stato organico.. Quindi una prospettiva diversa, che rendeva la collaborazione non impossibile ma costellata di tensioni profonde (la contrapposizione del concetto di individuo a quello di stato organico).

Per di  più, il Governo non si preoccupava abbastanza che nel paese, a parte il voto (i Fasci non avevano eletti) , il clima era mutato sotto un altro aspetto. Al di là dello scontento derivante dalle difficoltà per riscuotere i rimborsi dei famosi prestiti di guerra, l’avventura fiumana di D’Annunzio aveva coagulato un nuovo atteggiamento politico. Andava radicandosi tra  i sostenitori (specie gli ex militari) della tesi della Corona riguardo la priorità del completare il Risorgimento, i quali ora  erano molto scontenti sia per il Trattato di Versailles (che aveva mutilato la vittoria sul campo) sia per il pesare dei comportamenti disfattisti (fondamento degli aiuti a chi si era  arricchito con la guerra  senza mai prendervi parte, vale a dire gli imboscati) sia per l’estrema difficoltà  di reinserirsi in campo lavorativo.

Questo nuovo gruppo costituiva la base adatta per le impostazioni nazionaliste e sansepolcriste, ovviamente contrapposte alla pressione oramai dilagante della sinistra  lavoratrice esaltata dal richiamo supposto vincente della rivoluzione russa (Nitti li chiamava gli opposti miraggi).  Così in quei mesi si restrinsero velocemente gli spazi   per affrontare in modo graduale i problemi. Perché da una parte si cristallizzavano le esaltazioni ideologiche del sostenere ad ogni costo il sol dell’avvenire rivoluzionario (che costituirono nel secondo semestre del 1919 e in tutto il 1920 a quello che sarà chiamato il biennio rosso)  e dall’altra né i politici di cultura liberale (messi all’angolo da quanti anteponevano la necessità di  combattere il pericolo della sinistra iconoclasta) né i socialisti riformisti (sempre  più isolati con l’accusa di esser venduti ai capitalisti), furono capaci di individuare soluzioni rispettose di una convivenza ordinata. In pratica spalancarono il campo allo svilupparsi delle rivendicazioni fasciste, incentivate dalla pressione della sinistra, la quale, oltre a far nascere i consigli di fabbrica superando di fatto il sindacato, assumeva aspetti sempre più facinorosi nelle piazze di tutto il paese e provocava scioperi diffusi e in aumento.  Pure  tra i contadini, ai quali dopo Caporetto era stata promessa la riforma agraria, che avrebbe dato un podere ai combattenti. La riforma non ci fu e si verificarono proteste diversificate nelle varie regioni : invasione dei latifondi e delle terre incolte nel Mezzogiorno, lotte dei mezzadri nelle regioni dell’Italia centrale, scioperi dei braccianti per più salari in Val Padana. Nel dopoguerra il divario della ricchezza si allargava, innescava le paure, creava un’atmosfera minacciosa, infittiva i disordini e gli scioperi. 

Va inoltre aggiunto che a fine novembre 1919 il Senato degli Stati Uniti aveva respinto per due volte la ratifica del Trattato di Versailles (per cui la Società delle Nazioni  non decollò). Di conseguenza restarono solo in Europa i fautori delle punizioni alla Germania così dure da essere foriere negli anni di ulteriori scontri frontali. In quella situazione frenetica,  l’Italia era l’unico paese che aveva vinto la guerra e che si comportava come se l’avesse persa. Il quadro  complessivo era perciò molto distante dal progetto politico di Nitti,  imperniato su un’Italia laboriosa dedita allo sviluppare un processo di conciliazione che desse vita ad una ripresa economica  diffusa.  

Nitti, rilevato “lo spirito di violenza imperialistica del popolo italiano“ aveva difficoltà ad agire con efficacia. Al fine di rabbonire i nazionalisti cercò la trattativa diretta con gli jugoslavi (per non dover ricorrere al Trattato di Londra, indigesto agli alleati) e insieme non interveniva sull’avventura fiumana (nonostante le forti tensioni internazionali).  Poi persisteva nel trattare le agitazioni sociali pervasive essenzialmente come questione di ordine pubblico , senza interventi nella struttura dei rapporti economici.

Del resto, a marzo del 1920, Nitti disse alla Camera “non esiste più un problema nazionale, ma un problema europeo”.  Considerazione esatta visto che  l’edificio della pace dipendeva  dallo spirito di rinnovata collaborazione purtroppo ostacolato dalla struttura dei Trattati di Versailles. Non a caso Nitti dichiarò che “per effetto dei trattati l’Europa è stata divisa in due parti di cui una inerme e senza materie prime, senza navi, senza colonie, senza territori e senza organizzazione commerciale all’estero, dovrebbe pagare enormi indennità a quei poveri vincitori che dichiarano per proprio conto di non poter pagare non solo i debiti ma gli interessi dei debiti agli Stati Uniti d’America e alla Gran Bretagna”. Nella sostanza Nitti riprendeva la tesi di Keynes e riteneva che la ricostruzione europea dipendesse dall’equilibrato trattamento della Germania e dal ristabilire relazioni con la Russia.   

Ad aprile del 1920, però , diverse circostanze dimostrarono che in Italia il progetto di Nitti non aveva possibilità. Ci fu la visita del cancelliere austriaco che avrebbe dovuto essere la prova della riconciliazione tra vincitori e vinti. Però sul piano italiano teneva banco l’occupazione delle fabbriche. Poi ci fu la Conferenza di Sanremo tra gli alleati per dirimere diverse questioni del dopoguerra (a parte l’estromissione dell’Italia da accordi franco inglesi per la spartizione del petrolio del vecchio Impero ottomano). Però venne accompagnata da agitazioni sociali e da episodi di violenza. In più sul piano interno, emersero i difficili rapporti con il PPI.    

Intorno alla metà aprile, il secondo Congresso del PPI si centrò sulla riforma agraria, la quale, senza rinnegare la proprietà privata della terra, avrebbe esteso l’espropriazione al motivo di utilità sociale, quando la terra ai contadini portasse alla maggiore produttività della terra e delle classi agricole. Inoltre, in tema di  collocazione politica,  il relatore Giovanni Gronchi precisò che il PPI poteva partecipare al Governo  solo nella prospettiva “del progressivo profondo rinnovamento degli istituti economici e politici e attraverso chiare e concrete impostazioni programmatiche”. Di fatto un alto là al Governo in carica, tanto che nella prima metà di maggio il PPI uscì dal Nitti I. In breve la compagine ministeriale venne ricostituita dando maggiore attenzione alle indicazioni del PPI. Tuttavia neppure tre settimane dopo , Nitti, per diminuire il disavanzo pubblico, pensò  di abolire il prezzo politico del pane (opera sua all’origine), ma non riuscì a raccogliere una maggioranza, essendoci una diffusa contrarietà, dei popolari come ovvio ma non solo.  Nitti si dimise e il Re incaricò subito il quasi settantottenne Giolitti di formare il suo quinto  Governo.

4.2 b . 2  o – Il quinto Governo Giolitti e la fase  finale del biennio rosso – Il nuovo Governo Giolitti ebbe un’accoglienza favorevole: sia per  il collaudato prestigio del Presidente sia per la sua propensione politica – palesata da tempo e sovente riconfermata – di cambiare strada rispetto  all’interventismo d’impronta risorgimentale seguito fino ad allora. Una propensione assai attenta ai problemi italiani rifuggendo i miti dell’esaltazione nazionalista. In quella situazione assai pesante – con un debito pubblico balzato a  90 miliardi di lire (un aumento di 7 volte negli anni bellici) e i frequenti disordini in  piazza – occorreva una cura da cavallo e Giolitti venne considerato la persona giusta, per l’esperienza e per gli intenti innovativi.

Il Ministero venne composto da esponenti di varia provenienza culturale, oltre quella dei liberali. L’ambasciatore  Sforza agli Esteri, i cattolici Meda (Tesoro) e Micheli (Agricoltura), il democratico Bonomi alla Guerra, il sindacalista Labriola al Lavoro. E poi i liberali, a cominciare dal filosofo Benedetto Croce all’Istruzione (che Giolitti non conosceva di persona ma di cui apprezzava le affinità, in particolare  sul come promuovere i cambiamenti) e Marcello Soleri, un validissimo liberale cuneense, quale commissario per le questioni  alimentari. Nel complesso una composizione che attuava il principio della collaborazione tra culture differenti per governare al meglio lo Stato, una collaborazione resa ancor più necessaria dalla frantumazione prodotta dal proporzionale in parlamento.  Giolitti riuscì nello scopo, visto che all’opposizione restarono solo il PSI, il PRI e i Combattenti e Reduci ,  tutti insieme sotto al 37% .

Presentando il Governo alla Camera, Giolitti ribadì di ritenere essenziali due novità: abolire gli accordi diplomatici all’insaputa del parlamento e fare riforme dei rapporti civili ed economici adeguate alle condizioni disastrate dell’Italia. E insieme “dire sempre al Paese la rude verità, abbandonando la vuota retorica, la quale, ponendo sotto falsa luce fatti e apprezzamenti, costituisce una delle forme più insidiose di menzogne. Applicando tale linea, Giolitti  all’inizio quasi non toccò la politica estera, in attesa di studiare i documenti, partendo dalla questione adriatica e di Fiume per considerarle in una visione più larga.

Giolitti mise al primo punto la modifica dell’articolo 5 dello Statuto: “senza la preventiva approvazione del Parlamento non vi può essere dichiarazione di guerra”. Si trattava di una questione essenziale per affermare che la decisione di entrare in guerra – un atto foriero di ogni tipo di conseguenze per la vita umana – spetta solo ai rappresentanti   del cittadino. Ciò innovava in chiave liberale  la tradizione che assegnava alla Corona un simile potere senza controlli, con le nefaste conseguenze verificatesi anche nel maggio del 1915.  Era indispensabile , diceva Giolitti, rimuovere una strana contraddizione: “mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può né creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine senza la preventiva approvazione del Parlamento, può invece per mezzo di trattative internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili degli impegni che portano inevitabilmente alla guerra; e non solo senza l’approvazione del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati”. Per queste ragioni sperimentate, era urgente abolire la possibilità dei trattati segreti, così come di stipulare la pace, o di contrarre impegni internazionali, senza il preventivo consenso del Parlamento.

Quanto alle riforme adeguate,  fù seguita la medesima logica di rapportare il funzionamento dello Stato alle esigenze dei suoi cittadini, e perciò vennero introdotti alcuni  indirizzi più attenti ad una gestione pubblica efficiente. Iniziando dal frenare l’emissione della moneta cartacea (origine di inflazione dannosa per i risparmiatori), dal restringere le spese militari cominciando da quelle superflue in tempo di pace, dall’intervenire sui profitti di guerra,  dall’incentivare il produrre cereali, dall’adottare un sistema di tassazione progressiva e di nominatività dei titoli al portatore di ogni tipo.

Anche  l’obiettivo politico dichiarato di Giolitti (pure in caso di vittoria finale “altre guerre significherebbero condannare sin d’ora a morte due milioni di nostri figli o dei nostri nipoti, e condannare l’Italia ad un altro mezzo secolo di esaurimento economico per arricchire un’altra generazione di speculatori”) era evitare le condizioni per una nuova guerra,  A differenza di Nitti, tuttavia, riteneva che si dovesse farlo  sistemando le questioni in casa prima che in Europa. Pertanto si prefisse   di evitare in Italia la lotta muro contro muro  tra imprenditori ed operai (anche ad aprile c’erano stati fitti scontri  dopo la serrata degli industriali e del conseguente sciopero in tutto il Piemonte degli operai e dei contadini  con più di mezzo milione di partecipanti  e la presenza di cinquantamila soldati, sciopero terminato con grande difficoltà).  Quindi Giolitti fronteggerà con cautela  le tensioni di piazza.

Insieme  ai due capisaldi della centralità del Parlamento e delle riforme  per ravvivare la stato del paese, il Giolitti V aveva un terzo caposaldo:  “la completa trasformazione dell’istruzione pubblica, che è fra tutte le nostre istituzioni quella che procede con maggior disordine e con minor efficacia”. Così il Ministro Croce  indirizzò l’istruzione non più all’obiettivo  alfabetizzazione (la scuola quale luogo di  emancipazione delle masse, secondo l’opposizione socialista) , bensì  all’obiettivo di elevare il livello dell’educazione dei futuri cittadini. Vale a dire far crescere una scuola di qualità capace di dare una preparazione che metta in grado lo studente di andare oltre le sue condizioni di partenza. In logica analoga, il Ministro  affrontò la questione di garantire al cittadino un ambiente sano, presentando per la prima volta una  legge  che poneva “un argine alle devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo…”.

L’impostazione in termini chiari e raziocinanti della politica del Governo non placò le manifestazioni di protesta del mondo del lavoro sollecitate dall’ideologismo dei socialisti massimalisti presi dal sogno di replicare la rivoluzione russa (tra l’altro sobillati dalla decisione dell’Internazionale Comunista, il Comintern, di rompere del tutto con i riformisti).  Tutta l’estate fu costellata di scioperi che congiungevano le richieste economiche e la pressione rivoluzionaria, all’insegna della parola d’ordine  le fabbriche agli operai e la terra ai contadini. Anche perché gli industriali ammaestrati dalle vicende di primavera, non intendevano cedere.  Il culmine venne raggiunto a settembre quando i sindacati impegnati nell’ostruzionismo per far perdere produttività, di fronte alla conseguente serrata, occuparono fisicamente le fabbriche soprattutto a Milano, occupazione che si estese in tutto il paese allargandosi a varie categorie anche agricole.

Il Governo non intervenne direttamente, tra i sindacalisti non passò la linea rivoluzionaria dei massimalisti (sospinti dall’iscritto  Gramsci che sul giornale Ordine Nuovo auspicava che il PSI divenisse “partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista“). Nella seconda metà di settembre fu siglato un accordo di collaborazione e di aumenti salariali tra sindacato e imprenditori, confermato a fine mese da un referendum indetto tra i lavoratori. Il non uso della forza da parte di Giolitti, ebbe dunque successo, almeno in superficie.

A grandi linee furono favorevoli al Governo pure le elezioni amministrative che si tennero in tutto il paese a cavallo tra ottobre e novembre con il sistema maggioritario (le liste dell’Unione Liberale o da sola o in alcuni casi con il PPI e indipendenti borghesi conservatori conquistarono un pò più della metà dei circa 6700 comuni al voto, il PSI quasi il 29,% e il PPI ove presente quasi il 20%). Tuttavia il sottofondo politico restava parecchio instabile. Il PSI aveva prevalso in diverse grandi città. Ed era quel PSI  massimalista che faceva una campagna esaltata di prospettiva rivoluzionaria e si negava ad ogni trattativa con il Governo. Mentre l’opinione pubblica borghese, specie quella imprenditoriale ma non solo, diveniva sempre più preoccupata dalla prospettiva di una crisi di tipo bolscevico (all’insediamento del Sindaco PSI di Bologna, scoppiarono disordini molto gravi; in Consiglio venne ucciso un consigliere nazionalista e in piazza morirono nove persone). Così iniziò a spalleggiare e dare sostegno economico alle posizioni dei fascisti di Mussolini e delle sue squadre violente.  

Il Governo riuscì in molti suoi provvedimenti. Ad esempio, abolì il prezzo politico del pane, impose i titoli nominativi, varò la tassa sul patrimonio, avviò  gli interventi sui sovraprofitti di guerra. Ma non riusciva a mutare il clima di attesa nel paese per soddisfare contrapposte esigenze. Quali l’utopia democratico proletaria russa, il ricorso all’autorità della cultura a sfondo religioso che si sentiva minacciata dalla nuova scuola pubblica (il Ministro Croce era contrario all’insegnamento religioso nelle elementari), l’eccitazione dei nazionalisti persi nel sogno del prevalere del cosidetto spirito del futuro.

Questa eccitazione induceva i nazionalisti alla diffidenza verso  molti provvedimenti dj Giolitti. Erano visti alla stregua di un intento punitivo nei confronti di chi aveva voluto la guerra e l‘aveva vinta. Una valutazione che portava i nazionalisti a praticare il sostegno economico a Mussolini (che cambiò il sotto titolo del Popolo d’Italia da “quotidiano socialista indipendente” a “quotidiano dei combattenti e dei produttori”) e al tempo stesso  a sostenere D’Annunzio nell’avventura di Fiume.

Proprio sulla questione Fiume, Giolitti mostrò che, dopo aver studiato, agiva anche in politica a carattere internazionale. Siccome a settembre D’Annunzio aveva proclamato la Reggenza Italiana del Carnaro ispirata ai valori del sindacalismo rivoluzionario, Giolitti, per evitare le sicure complicazioni di vario tipo, stipulò a Rapallo un accordo con il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, con il quale Fiume divenne città stato indipendente, Zara passò all’Italia e in Dalmazia venne stabilito un status per gli italiani. L’accordo di Rapallo fu rifiutato da D’Annunzio e Giolitti, spazzando via  le connivenze interne anche della Corona, scelse una decisa azione militare per rimuovere  i ribelli – culminata dopo qualche settimana nel “Natale di sangue” a Fiume – e  risolse quel problema.

Simili azioni erano rilevanti, ma non invertirono la via ormai imboccata dall’Italia, che in una manciata di anni condusse a chiudere in un angolo  ristretto la  cultura della libertà.  Ormai tra i cittadini stava sempre più diffondendosi un approccio del tutto disattento a quanto richiede il costruire la libertà nel convivere. Una parte si immergeva sempre più nel sogno di arrivare alla dittatura del proletariato vissuta in Russia, una parte era invasata dal sogno di far divenire l’Italia un luogo dominato dai valori della patria, dell’onore, del dovere (alla fine del 1920 esistevano 88 fasci con 20615 iscritti, gli industriali siderurgici finanziavano il Popolo d’Italia che a gennaio mutò di nuovo il sottotitolo in “chi ha del ferro ha del pane”) , una parte tremava al pensiero che potesse arrivare la dittatura del proletariato ed era disposta a tutto pur di impedirlo. Erano sempre meno quelli che si preoccupavano di conservare le condizioni della libertà civile. 

Con un simile quadro estraneo al perseguire la libertà di ogni cittadino, si verificò un implacabile succedersi di avvenimenti ad esso funzionali. Si iniziò con il Congresso Nazionale PSI il 15 gennaio 1921 a Livorno. La minoranza più grossa voleva espellere la componente riformista e a tal fine presentò una mozione che venne respinta a larga maggioranza. Da qui la scissione della parte rimasta minoritaria che dette origine al Partito Comunista , evento da allora celebrato a sinistra con enfasi (mentre, dati alla mano, è stato un disastro, a partire dall’Italia dell’epoca).  Non meno grave fu che, tra quelli restati nel PSI, i massimalisti ebbero la maggioranza e mantennero il sogno della rivoluzione quale soluzione dei problemi di una convivenza democratica.

Contestualmente alle vicende del PSI e quale  reazione più sentita, a destra andava formandosi una valanga. Massa e velocità di questa valanga  derivavano dal fatto che, a differenza dei rivoluzionari di sinistra, era forte la capacità di mobilitare i cittadini. Principalmente perché a destra non esistevano solo i Fasci di Mussolini (con il capo che blandiva i capitalisti scrivendo “bisogna esaltare i produttori perché da loro dipende la ricostruzione”), ma anche un nuovo punto attrazione, che non appariva in quanto tale bensì per i modi duri   con cui i suoi adepti esterni si contrapponevano alla sinistra proletaria (come l’incendio della Camera del Lavoro a Bologna). Vale a dire il fascismo agrario. Ne ha dato una descrizione molto efficace lo storico Renzo De Felice : “Il fascismo delle zone agricole nulla aveva a che vedere con il fascismo mussoliniano. Era borghese nel senso più gretto del termine, privo di quelle aperture nazionali e talvolta sovranazionali che aveva la borghesia urbana e di ogni ideale, che non fosse quello dell’intransigenza reazionaria più brutale: un’intransigenza che non vedeva più in là dei propri interessi, immediati e locali di classe”.

In ogni caso il fascismo agrario si affiancò ai visibili fascisti di Mussolini, che ricambiavano dando spazio agli agrari. Insieme i fascisti si diedero a crescenti violenze in specie contro le Case del Popolo, luogo di ritrovo e di organizzazione delle lotte proletarie. Nel complesso la valanga ingrossò alla svelta. Peraltro si trattò di una valanga silenziosa e poco percepibile, la quale trasse in inganno Giolitti. Infatti, all’indomani del Congresso PSI, preso atto non solo della inaspettata (secondo lui) sconfitta dei riformisti, ma addirittura del successo dei massimalisti  cui ora si aggiungeva perfino il Partito Comunista , Giolitti si rese conto che non poteva più sperare in una trattativa con i socialisti per ampliare l’area di sostegno al suo Governo dotato di una maggioranza  a ben vedere precaria. Unì tale consapevolezza all’idea che l’elettorato non apprezzasse il progressivo scivolamento verso posizioni proletarie e che perciò era prevedibile una crescita elettorato di tutta l’area ostile alla sinistra (oltretutto mentre erano gravissime le tensioni, quali la bomba al Teatro Diana a Milano, di matrice anarchica,  con 21 morti). Di conseguenza convinse il Re che fosse opportuno sciogliere il Parlamento. Il che avvenne i primi di aprile del ’21, formalmente poiché si doveva far votare i territori annessi negli ultimi mesi. Giolitti tuttavia finì ingannato dal sottovalutare la corposità del mondo mussoliniano, in particolare nella parte del fascismo agrario, da lui valutata solo per gli aspetti del violare l’ordine pubblico e non per i consistenti riflessi politici.

 

4.2 b . 2  p –  Le elezioni politiche del 1921 e fino all’inizio del governo Mussolini. Le elezioni si tennero nei 40 collegi in cui era divisa l’Italia. Erano in campo (seppure ciascuno solo in una parte dei collegi) cinque partiti aventi  simbolo unico (PSI, PPI, PCI, Blocco Nazionale, Partito Repubblicano) e  liste collegio per collegio,  e vi erano undici altri gruppi politici (pure loro non in tutti i collegi) risultanti ognuno da una coalizione di diversi gruppi avente nei vari collegi liste diversamente denominate.

I più importanti degli undici furono il Partito Liberale Democratico (20 collegi che riuniva liste chiamate Partito Liberale Democratico, Partito democratico, Unione democratica, Fascio democratico, Unione costituzionale democratica, Partito costituzionale democratico), il Partito Liberale (15 collegi che riuniva liste chiamate Concentrazione liberale, Unione nazionale, Unione costituzionale, Costituzionale indipendente, Liberale costituzionale, Blocco nazionale di avanguardia, Blocchisti dissidenti) e il Partito Democratico Sociale (7 collegi che riuniva le liste Partito democratico sociale, Alleanza democratica sociale, Alleanza democratica progressista).       

La novità  politica di rilievo, a parte quella del PCI, era il Blocco  Nazionale nell’area giolittiana.  Cosa era? Candidava insieme i liberali giolittiani, i Nazionalisti di Corradini, i Fasci di Combattimento di Mussolini ed alcuni Popolari locali , con l’obiettivo di intercettare la paura verso il pericolo proletario. Il Blocco Nazionale  manifestò  il doppio  intento di Giolitti  di controbilanciare i partiti di massa (socialisti e comunisti, e seppure molto più cautamente, il PPI di Sturzo)  e di coinvolgere Mussolini di cui percepiva l’interesse ad inserirsi. Al tempo stesso, peraltro, Giolitti restò ingannato dal non aver colto la presenza del fascismo agrario, come cultura violenta e forte (forse perché riteneva inconcepibile minare lo Stato con la violenza). Su quest’ultimo punto si rivelò assai più accorto il Direttore Albertini che manifestò più volte pubblicamente la sua contrarietà alla  candidatura Mussolini.

In ogni modo, durante la campagna elettorale, la presenza del fascismo agrario non venne nominata quale concetto ma si manifestò ampiamente nei continui episodi di violenza che caratterizzarono il periodo, con oltre cento morti e ben più di quattrocento feriti (gli  ordini chiari e tassativi ai prefetti di compiere una “repressione immediata esemplare”, molto spesso rimanevano inefficaci per la tolleranza o l’impotenza delle autorità). Il candidato Mussolini, da parte sua, non portò attacchi alla persona di Giolitti, però non mancò di  dire che il futuro parlamento sarebbe stato diretto da gente nuova ed inoltre minimizzò sempre le violenze (ciò del resto non può stupire, vista la costante sensibilità di Mussolini all’opportunismo estremista, che sette anni prima ne aveva determinato l’espulsione dal PSI). Del resto è palese che Giolitti riteneva quello dei Fasci un problema politico, dunque da affrontare in termini politici favorendo la loro entrata alla Camera. Anche perché lui, come moltissimi nell’opinione pubblica, pensavano che fossero un fenomeno transitorio sottovalutando il loro intento di rivoluzionare lo Stato liberale.  

Si votò il 15 maggio e nel complesso, gli otto movimenti indicati sopra riportarono poco meno del 93% dei voti (il PSI intorno al 24,6% con 123 eletti , il PPI intorno al 20,4% con 108 eletti, il Blocco Nazionale intorno al 19,1 %  con 105 eletti, il Liberale Democratico intorno al 10,3% con 68 eletti , il Partito Liberale intorno al 7,1% con 43 eletti, il Democratico Sociale intorno al 4,7%  con 29 eletti , il PCI intorno al 4,6%  con 15 eletti e il PRI intorno al 1,8% con 6 eletti).

Questi risultati testimoniavano una forte ripresa dei partiti rispettosi dello Statuto (48,5% rispetto al 36,9 del 1919), tuttavia non soddisfecero Giolitti. La sinistra nel suo insieme (PSI e PCI) aveva sì perso 18 eletti (intorno al 3%), però il PPI  era stabile e guadagnava 8 eletti, ma soprattutto il Blocco Nazionale non solo non aveva sfondato ma aveva eletto 35 mussoliniani (cui se ne aggiungevano 2 dalla  lista dei Fasci di Combattimento esterna al Blocco).   Il mese seguente, nella nuova Camera – dopo che Mussolini aveva cercato in un intervento di riposizionarsi verso il PPI, abbandonando il tradizionale anticlericalismo, e verso il PSI auspicando  un patti pacificazione – su una mozione di politica estera Giolitti ottenne la fiducia con solo una trentina di voti di maggioranza, con forti opposizioni, oltre che dalle sinistre e dai mussoliniani anche da parte dei popolari. Di conseguenza pensò bene di rassegnare le dimissioni, rifiutando poi un nuovo incarico.  L’incarico fu offerto a un nome collaudato, il Presidente della Camera De Nicola, però indisponibile. Così emerse un altro seguace dell’impostazione giolittiana, Ivanoe Bonomi.

Bonomi era stato per lungo tempo un convinto iscritto al PSI  (e suo esponente di rilievo)  definito da Turato più di un decennio prima “un sincero socialista nel cuore, ma piuttosto un eccellente democratico-sociale nel cervello“.  Di fatti era così riformista che nel 1912 era stato espulso dal PSI  insieme a Bissolati. Fin da allora apprezzava Giolitti, ma poi si era mostrato interventista moderato (quindi costantemente avversario della linea Sonnino). In varie occasioni aveva avuto incarichi importanti, tra cui più volte Ministro. Il suo ragionare realistico fu il suo pregio  politico,

Insediandosi il 18 luglio, con una maggioranza imperniata sul PPI e sui Liberali del Blocco Nazionale e del Partito Liberale (la quale arrivava a superare la metà fino al 60% mediante l’appoggio esterno dei Liberali Democratici),  Bonomi enunciò la continuità  politica con Giolitti e si disse preoccupato per il proseguire dell’illegalismo degli ambienti fascisti “oltre il ristabilimento dell’equilibrio delle varie forze sociali” (e i mussoliniani si schierarono all’opposizione). Tre giorni dopo, la preoccupazione si concretizzò nei gravissimi fatti di sangue a Sarzana.  

Molte centinaia di fascisti toscani occuparono la stazione.  E con i modi loro abituali, dissero ai carabinieri astanti  di voler liberare con ogni mezzo una decina di camerati fermati in Lunigiana e di volere  la consegna di un sottufficiale dell’arma, reo di aver schiaffeggiato un noto fascista. Nel parapiglia, gli squadristi spararono e così indussero i carabinieri a spazzarli via con le armi, causando morti e feriti. I fascisti fuggirono ma vennero affrontati nelle campagne dai contadini e  da gruppi della sinistra, subendo quasi venti vittime. In tutto il paese  i Fasci reagirono con numerose spedizioni punitive che provocarono svariate decine di morti.  Mussolini tuttavia avvertì il pericolo di restare isolato  e. nelle settimane successive,  agevolò  il “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti  promosso dal Presidente della Camera e appoggiato da Bonomi (alla fine firmato il 3 agosto, con  i prefetti spinti a favorirne l’applicazione locale).

Bonomi vedeva il Patto come strumento  per ricondurre le diverse forze nuove nell’ambito parlamentare.  Invece non era questa la prospettiva tra i fascisti, anche i più avvertiti. Un ventiseienne fascista, Dino Grandi, destinato ad un rilievo politico di assoluto primo piano, commentò i fatti di Sarzana così:  “siamo noi lo Stato e la Nazione”.  Sono parole che mettono in luce una certezza dirimente. In Italia la diversità non esiste ed è un fatto indiscutibile da imporre anche a forza, trattando da nemico chiunque non lo condivida. Per la mentalità liberale, tale certezza – specie in un’epoca in cui esisteva pure un contrapposto mito rivoluzionario –  è così estranea  al mondo reale, da lasciare increduli coloro che se la trovano davanti, così increduli da non riconoscerle immediatamente un peso adeguato.  Fu quanto accadde allora anche a Giolitti e a parte consistente dei liberali coevi.  Oltretutto depistati da quel grande affabulatore, al fondo estremista, che era Mussolini. L’aver sottoscritto il Patto di Pacificazione fece nascere accese frizioni nei Fasci di Combattimento, tanto che al Consiglio Nazionale di fine agosto Mussolini e Farinacci dettero le dimissioni, che furono respinte. Così venne accettata la linea più accomodante di Mussolini.  

Il Governo Bonomi proseguiva intanto lungo il proprio indirizzo di pacificazione. A Roma, i primi novembre del ’21 si tenne il III Congresso dei Fasci di Combattimento, i quali durante l’anno avevano più che decuplicato gli iscritti. In quel Congresso vennero sanati i precedenti contrasti, i Fasci vennero sciolti e alla fine fu costituito  il Partito Nazionale Fascista, PNF, in continuità con le precedenti strutture territoriali locali. La settimana dopo il nuovo Consiglio Nazionale decise di uscire dal Patto di Pacificazione, come volevano gli scontenti. Di fatto, da allora prevalse l’indirizzo della dichiarazione fatta da Grandi nel dopo Sarzana.

Verso metà dicembre, alla Camera, il Presidente del Consiglio  sostenne che in quattro quinti dell’Italia la pacificazione era cosa fatta. Sottolineando pure che il governo adottava una cura intensiva ed assidua per contrastare illegalità e violenze nella Padania e nella inquieta Toscana. Inoltre precisò che la tendenza mussoliniana sarebbe stata in grado di normalizzare il fascismo. Così indusse ad astenersi (un aiuto al Governo) la quarantina di deputati mussoliniani all’opposizione. 

Sempre nell’ottica della Pacificazione, poco prima di Natale Bonomi autorizzò i prefetti a sciogliere le organizzazioni ” dimostratesi  corpi armati e militarmente organizzati“. Nella pratica peraltro, la circolare di Bonomi iniziava facendo l’esempio degli arditi del popolo e delle squadre rosse mentre accettava che le squadre armate del PNF si autodefinissero “in difesa dei supremi interessi della Nazione“. Nel complesso si può quindi dire che pure Bonomi non coglieva l’intima natura del fascismo e sottovalutava la parte del fascismo agrario intransigente e del tutto autoreferenziale. 

Oltre al primario problema dei partiti che contestavano il modo di essere delle istituzioni, si presentò anche un grave tema economico.  La profonda crisi  della Banca italiana di sconto seminò forti dissapori in vari settori governativi. E poi i nazionalisti dissentivano parecchio sul come veniva condotta la politica estera negli incontri con gli alleati a proposito delle richieste operativa della Germania riguardo l’esecuzione del trattato di pace. Tutto ciò si sovrapponeva ad un’azione di Governo poco incisiva : sia perché l’intera area liberale nelle sue diverse componenti era percorsa da tanti contrasti sia per il rapporto problematico tra il mondo liberale e il PPI (vuoi per le fisiologiche diffidenza politico culturali  vuoi per le divisioni in gruppi del Ppi). Simili problemi si formalizzarono il 18 gennaio, quando alla cerimonia per il primo anniversario della nascita del PPI, Sturzo , proclamata l’impotenza dello stato democratico liberale, auspicò che “il fascismo sappia difendersi da lui e dai suoi abbracci democratici”. Ricordato per memoria che qualche giorno dopo morì il Papa Benedetto XV  – che aveva indicato alla Chiesa e al mondo cattolico la necessità di battersi per la pace a livello internazionale e in Italia di reinserirsi attivamente nei rapporti istituzionali – va detto che la situazione fin qui descritta portava all’isolamento del Governo. Bonomi se ne rese conto  e rassegnò alla svelta le dimissioni (2 febbraio ’22). Mentre quattro giorni dopo, il Papa Pio XI appena eletto, seguendo l’indirizzo di Benedetto XV, riaprì il balcone di Piazza S.Pietro per la benedizione. Era la prima volta da1870.

La soluzione della crisi non fu rapida (la più lunga dal 1848).  Il Re tentò con il Presidente della Camera De Nicola e poi con Orlando. E dopo il naufragio dell’uno e dell’altro , reinvò Bonomi alla Camera ma lui non ottenne la fiducia. Del resto, la maggioranza possibile restava la medesima di prima, così come l’opposizione. Nella maggioranza i più forti erano i liberali giolittiani, che tra l’altro disponevano anche della persona più collaudata. Tuttavia Sturzo e il PPI  erano fermamente contrari al ritorno di Giolitti in persona (motivi politici, caratteriali e di prestigio) e posero apertamente il veto. Però furono disponibili ad appoggiare un deputato da nove legislature vicinissimo a Giolitti, come il piemontese di Pinerolo, Luigi Facta. 

Facta si impegnò per riuscire e a fine febbraio divenne Primo Ministro di un Governo con una maggioranza contro PSI e PCI e senza il PNF (che aveva acquisito un maggior peso). Facta non aveva tuttavia mire di protagonismo e pensava piuttosto ad essere una transizione preparatoria di un nuovo ritorno di Giolitti. A metà marzo alla Camera disse  che per il Governo “la prima condizione, la più necessaria” era  il ripristino dell’ordine  e richiamò funzionari pubblici e magistrati all’imparzialità. Subito dopo  sospese le disdette agrarie in tre province della Toscana, tra vibrate proteste da destra. E poi intervenne con finanziamenti a favore dell’industria navalmeccanica e del concordato della Banca di sconto e con i  creditori (sollevando le  forti  critiche di Einaudi).

Tra metà aprile e la seconda metà di maggio, Facta tenne a Genova  una Conferenza Internazionale, preparatoria della ricostruzione economica europea, cui presero parte una trentina di paesi, Russia e Germania incluse. Così manifestò una decisa volontà pacifista, ma in Italia. visto che la sinistra proletaria predicava la rivoluzione contro lo Stato borghese e  la destra  .. fascista assaltava le amministrazioni locali di sinistra, la questione scottante restava sempre più l’ordine pubblico.  Nonostante le reiterate circolari ai prefetti perché sedassero le violenze e a denunciassero i colpevoli. Di fatto, al passare dei giorni, il clima diveniva sempre più insostenibile. L’attivismo dei fascisti, e in particolare della linea dei fasci agrari, non aveva baluardi concreti, dato che la sinistra era chiusa nella bolla dei sogni ideologici privi di forza effettiva, che i popolari non riuscendo a liberarsi dei pregiudizi verso gli istituti liberali restavano ambigui nel non essere disponibili a dare una mano concreta  a difenderli  davvero, e che l’ancora amplissima area liberale – come scrisse in quel periodo Giolitti al Direttore della Tribuna – auspicava che il governo ”si buttassse a capofitto nella lotta contro il fascismo” ma temeva di arrivare così alla guerra civile., ragion per cui    restava alla finestra.     

La situazione si fece insostenibile quando (metà luglio) i fascisti di Farinacci devastarono a Cremona la casa del deputato PPI Miglioli. Ma vi furono violenze fasciste anche a Bologna e Ferrara. Pochi giorni dopo Facta volle chiarire alla Camera la posizione delle forze politiche. Nel suo discorso sollecitò uno sforzo collaborativo e  disse che quanto accaduto non era attribuibile  solo a lui, ma soprattutto ai funzionari e ai magistrati inadempienti nonostante le continue sollecitazioni. Per questa posizione molto criticata dal PNF, il PPI presentò una mozione di sfiducia al governo, votata anche dall’area socialista al completo, dai demo-sociali, dai comunisti, dai repubblicani, e persino da molti amici di Nitti, dunque approvata.  Facta si dimise subito.

Va fatto un  rapido commento a questo episodio. Fu la prova inconfutabile del frutto avvelenato di elezioni fatte con il proporzionale: in aula si innescavano dibattiti tra gruppi capaci di pensare solo alla propria immagine senza curarsi né di quale decisione stesso prendendo il Parlamento né dell’interesse dello Stato. Perché di fronte alle violenza dello squadrismo fascista e alla guerra civile strisciante, è ovvio il voto “si” alla mozione espresso dall’area social comunista e da tutti gli altri intenzionati a distruggere le istituzioni liberali e democratiche. Ma fu assurdo il voto “sì”  di  tutti quelli che, votando in tal modo,  intendevano creare le condizioni per sconfiggere lo squadrismo fascista. E che invece ne acceleravano  il successo. La conferma venne dai fatti del trimestre successivo.   

Sulla carta i deputati contrari al PNF erano una maggioranza molto ampia. Anche senza PSI e PCI.  Ma non avevano nessun progetto di coalizione. Anzi, alcuni temevano che formarla avrebbe chiuso ogni possibilità di riportare il PNF sulla strada legale. Il Re, dopo aver inutilmente tentato con altri nomi (già utilizzati o nuovi), il 30 luglio reincaricò Facta, il quale accettò assai a malincuore. Il Governo Facta II nacque in un giorno e in pratica fu lo stesso del Facta I. Verso metà agosto  ebbe la fiducia da tutti salvo gli oppositori, da destra e da sinistra, della democrazia liberale. Solamente che, a differenza del mese prima, il PNF, avendo tastato il polso dei democratici,  puntava dritto all’azione di forza nel mentre le sinistre, prive di realismo, si attardavano in scioperi generali appena passato Ferragosto (incuranti dell’inequivoco monito scritto di Mussolini “dò 48 ore allo Stato per reagire, altrimenti interverremo per riportare ordine”).

Anche Facta non si intimidì e partì da Roma per riposarsi a casa in Piemonte (tornerà a Roma i primi di ottobre, il 6). Nel frattempo il PNF prese ad organizzare in diverse città nel paese adunate cui prendevano parte migliaia di cittadini. A Napoli al Teatro San Carlo, Mussolini parlò in veste di restauratore dell’ordine. Era presente anche Benedetto Croce che lo definì un ottimo commediante. Comunque sia, nel mese di settembre circolava in Italia la voce di una prossima marcia su Roma dei fascisti. E correva pure l’ipotesi di un rimpasto per far entrare Mussolini al Governo.

I primissimi di ottobre, il Congresso Nazionale PSI approvò di strettissima misura la mozione massimalista che espelleva i riformisti (Turati, Matteotti, G.E. Modigliani, Treves) perché a fine luglio avevano preso parte alle consultazioni del Re prima della nascita del Governo Facta II  così violando lo spirito rivoluzionario (i riformisti risposero creando il PS Unitario).

Qualche giorno dopo (8 ottobre) a Bologna,  su impegno del centro nord e la piena copertura del Corriere della Sera, si riunirono – in clima collaborativo più sul piano umano che di effettiva sostanza   – i delegati di una consistente rete di iscritti (intorno a duecento mila) per   dare anche ai liberali un partito del genere  di massa ( e perciò , più che di cultura politica, discussero del nome e sullo Statuto). Le tendenze del Congresso vedevano la sinistra per la ferma autonomia del partito, il centro possibilista e la destra filonazionalista. Al Congresso non presero parte i nomi di primo piano politico.  Venne scelto il nome di liberali (tesi dei salandrini) piuttosto che liberaldemocratici (proposto dai giolittiani).  Quanto allo statuto affermava  “la fede nelle vigenti istituzioni che hanno possibilità di indefinito progresso” da “sostenere con l’organizzazione e la propaganda contro ogni forma di violenza e disgregazione” (dunque riaffermazione che i liberali non si riconoscevano nel fascismo o nel comunismo e diffidavano di socialisti e popolari).

Quasi contemporaneamente, consenziente Facta, si avviarono cautissime trattative diplomatiche tramite il prefetto Lusignoli tra Giolitti e Mussolini. Quest’ultimo si disse disponibile ad un governo Facta. Facta ne concluse che un accordo con il PNF restava possibile.

I giorni passavano e Facta informò della trattativa il Consiglio dei Ministri che in maggioranza si disse contrario. Nel frattempo proseguivano  le adunate, pullulanti di camicie nere e con l’appoggio sempre più esplicito di industriali, finanzieri, agrari, che fornivano anche mezzi economici. In pratica, si riteneva opportuno che il PNF entrasse nel Governo. Lo disse esplicitamente anche Giolitti nel Consiglio Provinciale di Cuneo il 23 ottobre: PNF al Governo in proporzione al suo peso in Parlamento.

La svolta finale ci fu nei giorni seguenti. Il 24 in una sfilata a Napoli, Mussolini minacciò nel suo discorso “o ci daranno il Governo o glielo prenderemo calando su Roma”.  Un noto liberale, Gobetti, commentò  “state in guardia, perché Mussolini se va al potere ci resta vent’ anni”.  Lo Stato istituzionale era sempre più sfilacciato con l’avviarsi della marcia su Roma che raccolse circa 25mila uomini armati di bastoni (quando lo erano). Il 26 Facta chiese al Consiglio dei Ministri di far posto al PNF. E poi il Governo ordinò il blocco delle ferrovie a Civitavecchia, Orte, Sezze, Viterbo e Avezzano al fine di trattenere la marcia fascista lontano da Roma, che del resto era ben difesa  con superiorità di  uomini  (28.400 soldati) e di equipaggiamento (autoblinde, cannoni e mitragliatrici).

Quando all’alba del 27 ottobre, Facta venne informato che la marcia era in atto, sollecitò il Re di rientrare da San Rossore a Roma per dare un segnale distensivo e telegrafò a Giolitti, a Mussolini, a Meda perché venissero a Roma per consultazioni. Nelle ore successive della giornata, il Consiglio dei Ministri produsse un nuovo Appello alla Pacificazione, decise di dimettersi –verbalizzandolo – e insieme di proporre al Re di proclamare lo Stato d’Assedio (decisione di per sé contraddittoria, visto che lo Stato d’Assedio implica un Governo forte). Le dimissioni vennero comunicate al Re, appena rientrato da S. Rossore,  all’ora di cena. Nelle primissime ore del 28 ottobre, Facta fece diramare ai prefetti e ai comandanti militari  la seguente circolare: “Il Governo, su unanime decisione del Consiglio dei Ministri, ordina Signorie loro di provvedere a mantenere ordine pubblico e ad impedire occupazione uffici pubblici, consumare azioni violente e concentramenti e dislocamenti armati usando tutti i mezzi a qualunque costo, e con arresto immediato e senza eccezione capi e promotori del moto insurrezionale contro i poteri dello Stato”. Fu stampato pure un decreto di assedio che venne affisso di mattino presto nella città di Roma. E venne affisso pure il Manifesto con l’Appello alla Pacificazione.

Nel frattempo, tuttavia, durante la notte tra il 27 e il 28, il Re era rimasto alzato, ed aveva tenuto una selva di consultazioni, a partire dai Presidenti di Senato e Camera, da alcuni parlamentari liberali e di altri gruppi, dai rappresentanti di varie associazioni economiche e finanziarie, dai vertici militari, giungendo anche a membri qualificati della Chiesa e perfino ad incontrare uno degli effettivi organizzatori della Marcia su Roma dietro le quinte (sul campo i capi erano i quadrumviri, De Bono, De Vecchi, Balbo e Bianchi, mentre Mussolini dissimulava stando in disparte al Giornale). Praticamente tutti i consultati convenivano sul portare il PNF al governo. E pure i pareri internazionali privilegiavano un governo di stabilità che escludesse solo i filo bolscevici.

Alle 9 del mattino Facta si recò dal Re  per sottoporre alla firma  il testo della proposta di Stato  d’Assedio redatta da Soleri. Ma, inaspettatamente (per Facta) il Re oppose un fermissimo rifiuto. Di conseguenza si restò alle  dimissioni di Facta date la sera prima e vennero poi emanati gli ordini di revoca della circolare ai prefetti. Quel pomeriggio, stante la indisponibilità di altri candidati del mondo liberale, il Re dette l’incarico a Salandra, nonostante le cattive prove degli anni precedenti.  Ma il nome di Salandra provocò forti dissensi con il PNF che lo rifiutò e l’ingresso del PNF era l’obiettivo del Re.   Tra l’altro in quei giorni  era  come sparito il PPI, restato sempre silenzioso, e alla fine, nel pomeriggio del 29 ottobre,  il Re dette l’incarico a Mussolini, al quale telegrafò per convocarlo al riguardo. Perché Mussolini – un commediante, come diceva Croce – era sempre rimasto a Milano.

Arrivati a questo punto, si impongono   tre considerazioni  distinte ma connesse nel rilevare l’avvenuto distacco dalla cultura liberale. Una è che  l’intera fase delle dimissioni del Facta II si svolse a Camere chiuse. Una crisi extra parlamentare senza precedenti dall’epoca di Carlo Alberto. Insomma un dato  emblematico  di come si fosse guastata la cultura politica liberale, considerato  che nessuno chiese l’autoconvocazione. Un’altra considerazione    è  che il Re si mostrò ancora una volta assai distante dalla cultura  liberale, perché di fatto non tenne nel dovuto conto il significato delle idee  politiche espresse in Parlamento e tradì gli ideali Risorgimentali  privilegiando quale motore politico effettivo – al di là delle dissimulazioni praticate – gli  atti di violenza teorizzati e  attuati che avevano violato la libertà degli individui .  Una considerazione ulteriore è che l’esperienza dei principi liberali non fece parte della mentalità di troppi cittadini, i quali pensarono di poter difendere i propri interessi e la propria libertà prescindendo dal contrastare i comportamenti illiberali di vari personaggi e delle loro proposte politiche.

Il Governo Facta II fu l’ultimo   governo  liberale,  Fino ad oggi .

 

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Sulla Corte Penale Internazionale (ad Agnese Pini)

Egregia Dottsa  Pini,

Letto l’articolo di stamani sul rilascio del generale libico, non firmato e quindi attribuibile alla Sua responsabilità, desidero segnalarLe  il  mio pezzo pubblicato il 24 gennaio su Pensa Libero (lo riporto in  calce con il link alla mia biblioteca). In fatti, motiva i criteri per cui la Corte Penale Internazionale dell’Aja non può essere sopra gli Stati, specie quando non rispetta le stesse procedure che la regolano. Che è il caso in fattispecie. Perciò, da liberale praticante di lunghissimo corso, ritengo l’assunto del Vostro articolo di stamani del tutto fuori luogo.

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La Corte dell’Aja tenta di mostrarsi sopra gli Stati

La virulenza del portavoce di Amnesty Italia nel condannare il rilascio del generale libico Almasri , mostra una distorta concezione di democrazia.  

Sabato 18 la Corte Penale Internazionale (CPI)  ha emesso un mandato di cattura del generale “per crimini contro l’umanità e di guerra”. Il mandato è stato eseguito a Torino il 19 all’alba e il generale incarcerato. Poi la Procura ha trasmesso a Roma i   documenti. Qui, il 21, la Corte di Appello ha eccepito che il Ministro era stato informato dell’arresto solo il 20, mentre la procedura della CPI prescrive prima  l’interlocuzione.  Perciò ha liberato Almasri, il quale ritenuto pericoloso dagli Interni, è statosubito riportato in Libia “per essere processato come prevedono gli accordi Italia-Libia”.

Il portavoce di Amnesty ha definito la vicenda scandalosa per quattro ragioni. Primo perché è cogente il mandato di cattura internazionale emesso dal massimo organo per crimini contro l’umanità. Secondo, il Generale è stato portato a Tripoli con un volo di Stato. Terzo, l’Italia ha l’obbligo di cooperare con la CPI. Quarto, l’obbligo è rafforzato perché la CPI è nata proprio a Roma.

Il portavoce di Amnesty conclude definendo il rilascio uno schiaffo alla CPI: “ignora la cooperazione internazionale sulla giustizia in nome di una cooperazione politica con la Libia onde fermare, a qualunque costo, soprattutto umano, i migranti”.

Con buona pace di Amnesty, il vero scandalo sta invece nell’assunto delle quattro ragioni alla base del chiamare la decisione italiana uno schiaffo alla CPI. Perché nella democrazia liberale far prevalere il meccanismo elitario (la CPI) sul voto dei cittadini (un Governo), è  ingannevole.

La CPI con sede all’Aja– nata a Roma con Prodi-Veltroni (1998) e composta da appena più di metà ONU (tra gli assenti Arabia Saudita, Cina, India, Iran, Israele, Libia, Russia, Turchia, USA) – si arroga  un ruolo maggiore del rappresentato. Presuppone il diritto internazionale (insussistente  fuori dai trattati  sottoscritti), e schiaccia la figura del cittadino ridotto a suddito.  In ogni Stato fare giustizia spetta ai conviventi, altrimenti non si agisce in nome dei popoli bensì dei vertici al comando. Dunque la nascita della CPI non è un vanto. Oltretutto, nel caso, la CPI non ha neanche rispettato le procedure. Quanto al rimpatrio del generale rientra  nei precedenti accordi italo libici.  Anche sull’ultimo punto, Amnesty antepone  la cura dei migranti  al regolarne i flussi e lascia in  coda i cittadini e le loro scelte.

L’attacco nell’insieme esprime  un’idea distorta di convivenza. Non si impegna sui problemi civili ma  soddisfa gli amici per ottenere  consenso emotivo. Influenza la politica  allontanandola dal concreto. Così le opposizioni, sostenendo la CPI nel nome di un supposto diritto internazionale, hanno celato l’assenza di un’alternativa (restando sfasate rispetto al reale).

Infine sorvola sul mancato avviso preventivo della CPI al Ministro, cioè sul tentativo di far prevalere il diritto internazionale. Un altro errore, poiché la democrazia non è un precetto morale né un fantasioso mondialismo. E’ una costruzione materiale tra umani attenti ai risultati.

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